domenica 23 dicembre 2018

Qualche considerazione molto personale...

Se avessimo il coraggio di studiare dettagliatamente le biografie dei grandi scienziati, scopriremmo che un periodo formativo all'estero non è un'eccezionalità nei percorsi formativi di molti, tra essi; e non è neppure un'esperienza introdotta recentemente nel cursus honorum di un uomo di scienza.

Nel XVI secolo e successivi, quando Padova poteva considerarsi la città di riferimento della Rivoluzione Scientifica in ambito medico, da ogni dove venivano per studiare con i più grandi del tempo e molti si fermavano ad insegnare: Vesalio era belga, Wirsung tedesco, Harvey inglese, Morgagni forlivese (quando Forlì era una cittadina dello Stato della Chiesa e il nostro era uno straniero - non cittadino della Repubblica di Venezia).

Agli inizi del XIX secolo, Parigi era la meta ambita da tanti aspiranti chimici: Liebig studiò con Gay Lussac; Piria studiò con Dumas; Cannizzaro con Chevreul e Regnault; etc.

Lo stesso Liebig fondò successivamente una scuola di Chimica a Giessen presso la quale pervennero giovani da tutta Europa, tra i quali il piemontese Ascanio Sobrero; lo stesso fece Wohler a Gottinga (dopo aver studiato con Berzelius a Stoccolma), dove si formarono molti medici e chimici, tra i quali l'italiano Giorgio Spezia (inventore del quarzo sintetico).

Altri esempi possiamo mutuarli dalla fisica, agli inizi del XX secolo: Rutherford, dalla Nuova Zelanda, si trasferì in Inghilterra per studiare con Thompson; Bohr, dalla Danimarca, fece altrettanto per studiare con lo stesso Rutherford, qualche anno più tardi; Fermi passò sei mesi a Gottinga, da Max Born; Segré fu ad Amburgo, da Otto Stern; etc.

Nel Secondo Dopoguerra, la mobilità degli aspiranti scienziati in formazione ha conosciuto un'incremento notevole e fruttuoso a tal punto che un Einstein, il quale ha rivoluzionato la scienza stando seduto ad una scrivania presso l'Ufficio Brevetti di Berna, costituirebbe oggi una figura più unica che rara - e forse più letteraria che reale.

Una certa politica nostrana e qualche media on-line guardano ai giovani che vanno all'estero, durante il percorso di studi, grazie all'Erasmus, e li appellano quali "studenti apolidi votati alla schiavitù del turbocapitale"; una volta completato il percorso di studi, i neo-laureati rifanno la valigia e gli stessi di cui sopra li chiamano "cervelli in fuga". 

Non entro nel merito di improbabili discorsi sulle opportunità che offre il mondo della Ricerca in Italia (puzzo sempre troppo da prete, come disse l'insigne accademico) o il mercato del lavoro extrauniversitario: non mi competono. 

Il necessario confronto con il mondo della Ricerca a livello planetario è un'opportunità di crescita personale, sia sul piano umano sia sul piano professionale, che va colta (e a tratti invidiata, per quanto mi riguarda). 

Forse - ma lo scrivo da ignorante fuori dai giochi - quello di cui ci si dovrebbe preoccupare (e molto di più, rammaricare) è che l'Italia non sia una meta troppo ambita da chi cerca di perfezionarsi (ma anche questo non è troppo vero e non va generalizzato: ricordo, quando studiavo a Venezia, di aver incontrato molte persone provenienti dai paesi più disparati, non tanto europei o americani quanto piuttosto qualche asiatico, da Iran, Cina, India).

Ciò che mi dà molto fastidio, invece, è la contrapposizione disegnata e amplificata da certi media (specie da internet) tra l'eccellenza che sembra scappare indignata dal suol natio e la mediocrità che resta a reggere le tristi sorti del paese. 

Certo, buona parte degli attuali politici probabilmente non suscitano molta simpatia agli occhi del volgo ignorante e talvolta essi non sembrano brillare per eccesso di competenza; magari qualcuno, nel mondo accademico, non sarà sempre stato trasparente nelle nomine e nei concorsi e questo potrebbe costituire più affare della magistratura che degli opinionisti urlanti sui social network.

Per quanto il marcio ci sia, come c'era nella Danimarca di Amleto e c'è oggi anche altrove (per buona pace degli esterofili), esso non può svilire l'intera storia (quella scritta dai protagonisti della Cultura, non quella che studiamo sui libri di scuola, fatta da papi, re, eserciti, guerre, battaglie e rivoluzioni) di una nazione.  

Pessimi ricercatori, ma ottimi docenti; bravi tecnici, ma didatti mediocri; eccellenti in cattedra e in laboratorio; pessimi in tutto ma bravi politicanti… si trova un vasto assortimento, come è giusto che sia, purché ogni componente sia in equilibrio con le altre. 

Anche se gli equilibri sono destinati a rompersi, prima o poi si ristabiliranno: senza indagarne le specifiche cause (non mi interessa, sono fuori, con il mio puzzo da prete), ricordo qualche "vittima" illustre di dinamiche analoghe in luoghi e tempi diversi e lontani da noi oggi, quali Malpighi, Morgagni, Volta-Scopoli vs Spallanzani, etc. Invidie, gelosie, vandalismi non hanno impedito a questi uomini di essere grandi scienziati.

Secondo taluni leoni da tastiera, invece, il sistema attuale impedirebbe ai giovani di talento di esprimersi nel loro paese: i leoni ruggiscono portando l'esempio di ricercatori e ricercatrici, esiliati all'estero dai cosiddetti baroni universitari, che trovano la cura per il cancro ma sono ostacolati dalle losche trame di Big Pharma in combutta con i primari e il ministero della salute. Il delirio paranoico qui trionfa; e anche la mia indignazione. Vi spiego perché procedendo per punti.

Innanzitutto ripeto quel che ho detto all'inizio: una persona che, ottenuta la laurea e/o il dottorato, vuol intraprendere la carriera di ricercatore sente la necessità di confrontarsi con il mondo della Ricerca, che ha una dimensione planetaria. Non va all'estero perché non c'è spazio in Italia; va all'estero prima di tutto per allargare i suoi orizzonti culturali. Così è sempre stato, da quando è nata l'università a oggi.

Sotto il termine "cancro" si nascondono centinaia di malattie diverse che coinvolgono tessuti diversi e che si sviluppano in modo diverso e in tempi diversi. Svariate forme di cancro esistono in tutto il mondo. Ciascuna di queste malattie ha un suo decorso, una sua diagnosi, un approccio terapeutico adeguato: in alcuni casi la Medicina dispone di armi per combattere efficacemente la battaglia contro le cellule "ribelli", in altri no. 

Qui si inserisce il lavoro del Ricercatore che si occupa di perfezionare le terapie esistenti (radio, chemio) o di cercarne di nuove e di adeguate (terapia genica, immunoterapia, etc.); tale lavoro si affianca allo studio di come uno specifico cancro abbia origine, si differenzi (le cellule ribelli non sono tutte uguali) e riesca ad eludere i naturali meccanismi di controllo, di cui siamo dotati, per poter proliferare e intaccare altri organi dando origine a metastasi.

Quando un ricercatore scopre qualcosa di nuovo, inizia a tastare la percorribilità di una via - che troppo spesso non conduce quasi da nessuna parte e che solo qualche volta può dare risultati incoraggianti.

Il difficile cammino della ricerca in questo ambito è ben raccontato in "Come nascono le medicine" (D'Incalci, Vozza - Zanichelli, Bologna, 2014), agile volumetto di cui consiglio la lettura.

Dare con troppo entusiasmo la notizia del ricercatore che scopre la cura per il cancro (quando nella realtà intravede una nuova via per costruire nuovi approcci terapeutici per una o per un gruppo di quelle malattie che noi comuni mortali chiamiamo sbrigativamente "cancro") potrebbe infine costituire un torto per il paziente che, nello sconforto della sua condizione, rischia di alimentarsi di false speranze e di illusioni. 

Non bastano i Dulcamara di turno che bandiscono l'elisir miracoloso e promettono guarigioni con rimedi della nonna, erbe di campo, bicarbonato di potassio e succo di limone; ci si mettono pure i ruggenti leoni da tastiera a commiserare i cervelli in fuga che scoprono - nel loro esilio forzato, lontano da casa, magari oltreoceano - la panacea per centinaia di mali diversi ma sono ostacolati nel loro intento filantropico dai complotti della politica corrotta e delle accademie decadute. 

Questo modo di pensare non fa bene ai malati; ai professionisti onesti che ogni giorno "combattono" insieme ai loro pazienti; ai ricercatori stessi che si impegnano nel loro lavoro al prezzo di sacrifici enormi, sia economici sia esistenziali; alle istituzioni e a noi cittadini, che abbiamo il diritto ad un'informazione onesta, degna di un paese civile e non di un romanzo distopico.

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