Il termine “lobotomizzato” viene usato raramente, più che altro per definire scherzosamente una persona con poche emozioni o pensieri propri.
A metà del XX secolo la lobotomia era invece una pratica medica ampiamente diffusa, utilizzata per trattare malattie, o malesseri, come la schizofrenia, la depressione, ma anche l’euforia sociale (celebre il caso di Rosemary Kennedy).
Dopo esser stata inventata nel 1936 dal dottor António Egas Moniz (1874-1955), che per la scoperta vinse un controverso Nobel, raggiunse la massima diffusione dagli anni '40 ai primi anni '50 del secolo scorso.
Subisce una lobotomia anche Randle, nelle scene finali di "Qualcuno volò sul nido del cuculo", il film di Milos Forman che denunciò, nel 1975, le condizioni di vita dei pazienti negli ospedali psichiatrici americani.
Per fortuna verso la seconda metà degli anni '50 e negli anni '60, la lobotomia fu quasi completamente abbandonata sostituita dai farmaci neurolettici-antipsicotici a base di fenotiazina - come la clorpromazina - poiché questi, divenendo disponibili su larga scala, consentirono di ottenere un effetto simile a quello della lobotomia, non avendo però un effetto permanente sul paziente.
Oggi la si usa solo nelle rarissime epilessie che non rispondono alla terapia farmacologica.
Questo aneddoto mi è stato offerto tempo fa da un amico medico per riflettere sul perché parlare con eccessiva facilità di quello che dicono i premi Nobel - che apparentemente potrebbe garantire un certa tranquillità e sicurezza relativamente al fatto che non si stanno "riportando" corbellerie - potrebbe un domani riservare qualche sorpresa. Condivido lo spunto con voi.
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