mercoledì 31 luglio 2024

Giornalismo d'autore...


Il 31 luglio 1954, settant'anni or sono, l'Italia conquistava la vetta del K2: l'impresa fu celebrata da un bellissimo articolo di Dino Buzzati, uscito pochi giorni dopo. Eccolo, dall'archivio del Corriere della Sera. Buona lettura.

«UNA GRANDE NOTIZIA»

"Hanno vinto! Da parecchi anni gli Italiani non avevano avuto una notizia così bella. Anche chi non si era mai interessato d’alpinismo, anche chi non aveva mai visto una montagna, perfino chi aveva dimenticato che cosa sia l’amor di patria, tutti noi, al lieto annuncio, abbiamo sentito qualche cosa a cui si era persa l’abitudine, una commozione, un palpito, una contentezza disinteressata e pura. E con la fantasia abbiamo cercato di vedere i due vittoriosi sul pinnacolo ultimo del colosso diecimila volte più grande di loro. E i compagni appollaiati sugli spalti della ciclopica parete, simbolo minuscolo di un esercito schierato in profondità per la battaglia decisiva: tutti bravissimi, tutti degni di essere citati all’ordine del giorno del Paese.

«Gloria», «trionfo» sono le parole che gli Inglesi, per cui l’antiretorica è legge nazionale, hanno adoperato senza risparmio l’anno scorso quando venne vinto l’Everest. Perché oggi non dovremmo usarle noi? E poi, una invidia immensa: ecco il sentimento che abbiamo provato all’idea di quei due uomini in cima alla seconda vetta della Terra: così come quando, da bambini, si invidiavano gli eroi che sconfiggevano i draghi e gli orchi delle fiabe.

Sublime è un vocabolo rischioso, a cui ricorrere solo nelle occasioni eccezionali. Eppure non ci resta altro per definire ciò che sicuramente è avvenuto nell’animo degli alpinisti in quell’ora memorabile. Guardateli: spossati dalla fatica sovrumana, imprigionato il volto dalla maschera d’ossigeno che dà la vita ma è anche un tormento, infagottati dai giacconi imalaiani gonfi di piuma, simili a due goffi fantocci che, esaurita la carica, si muovono al rallentatore, già in preda forse alle misteriose allucinazioni degli ottomila metri, ridotti quasi a un pallido ricordo di se stessi, costretti a risparmiare anche i minimi movimenti, chè lassù semplicemente alzare un braccio costa un estenuante sforzo, all’ultimo confine delle risorse fisiche, oltre il quale c’è la morte.

Ma ora pensate alla tremenda felicità che deve aver sopraffatto i loro cuori: quella suprema solitudine, sparita l’ossessionante sagoma che da mesi incombeva su di loro, più nulla al disopra tranne il cielo, e tutto intorno, fino a perdita d’occhio, lo sterminato arcipelago dei Karakorum, ghiacciai inesplorati, catene gigantesche, vitree cattedrali, picchi paurosi, tutti, assolutamente tutti più bassi di loro. E quell’improvvisa pace interna dopo tanta tensione e tanti orgasmi, e il ricordo della casa lontana, e, legata alla piccozza, la bandierina di tre colori che finalmente sventola! Meravigliosa estasi non fatta di appagate ambizioni personali, di celebrità raggiunta, di sfrenato amore di se stessi, ma che veniva dalla coscienza di aver compiuto una gesta in sé splendida e nobile, di avere bene meritato della patria. Per loro una rarissima felicità che le parole non possono descrivere, ma anche per noi tutti.

Italiani, una vera e grande gioia. Ce n’è motivo in abbondanza. Ricordiamoci di certe esplosioni di esultanza collettiva perché uno dei nostri era arrivato primo al Tour o perché la squadra azzurra aveva vinto una importante partita all’estero. Non che si voglia disprezzare queste cose, ma al confronto che cosa meriterebbero oggi gli uomini di Desio? Era, dopo la caduta dell’Everest, la più superba e ardua rocca che restasse da conquistare. Era la massima fra le ultime superstiti occasioni che la Terra offrisse per misurare la nostra forza d’animo, la sfida più temeraria dell’uomo piccolissimo alla immensità della Natura selvaggia, ostile e sconosciuta. Era il traguardo più ambito per gli alpinisti dell’intero mondo.

Era l’esame più sgomentante non solo delle energie fisiche e dell’abilità tecnica, il che avrebbe ben poca importanza, ma della tenacia, dell’intelligenza, della serietà, del disinteresse, soprattutto delle qualità morali: il saper trovare un’ultima particella di volontà quando tutto, intorno, sembra dire: «Hai fatto perfin troppo, non vedi che non ce la fai più? Rinuncia!»; il tener duro fra i patimenti non per qualche breve ora bensì per lunghe settimane, per lunghissimi mesi: il resistere alla solitudine che in quei glaciali esilii opprime e schianta i temperamenti più orgogliosi; l’obbedire non già alla voce, così seducente, della vanità personale o del guadagno, ma alla disciplina di un interesse collettivo per cui chi magari ha dato più di tutti deve all’ultimo momento cedere il passo al compagno, per cui la gloria, se mai ci sarà, dovrà essere equamente spartita, per cui bisogna pensare più agli altri che a se stessi e per gli altri, se occorre, dare la propria vita.

Perciò tali conquiste — che da un punto di vista strettamente materiale possono sembrare addirittura futili (e c’è perfin qualcuno che dice «Son pazzie») — sono tenute nel maggior conto dai popoli civili come segno di virtù magnanime. Perciò l’anno passato la salita dell’Everest parve il più splendido dono offerto alla regina incoronata e l’ammirazione unanime di tutte le nazioni circondò gli scalatori dell’équipe britannica. Perciò la spedizione italiana è stata seguita in tutto li mondo con un interesse quasi febbrile, a cui per la verità si mescolarono talora anche ombre di diffidenza e gelosia. Perciò oggi, con riconoscenza, noi possiamo dire: onore a chi toccò la cima, onore a Ardito Desio e a tutti i suoi prodi compagni.

E dobbiamo congratularci pure con quanti — dirigenti e soci del Club Alpino Italiano — senza partecipare personalmente alla scalata, ne hanno saputo tuttavia creare le basi organizzative necessarie. Così come è doveroso apprezzare il generoso aiuto offerto dalle autorità del Pakistan, mentre un pensiero grato va ai componenti delle meno fortunate spedizioni americane; quelle di Houston del 1938 e del 1953, quella di Wiessner del 1939, che si avventurarono sui fianchi del gigante; i loro audaci tentativi, è giusto ammettere, sono stati una delle premesse più importanti del nostro successo.

C’è poi un motivo che dà alla vittoria sul K2 un significato specialmente patetico ed umano. È la croce che sorge ai piedi del picco imalaiano presso il campo-base sopra un solitario tumulo di pietre porta scritto: «Mario Puchoz », il nome della giovane guida valdostana uccisa, durante la prima fase della scalata, da una fulminea polmonite. Oggi la notizia del successo avrà rinnovato fatalmente nella sua casa di Courmayeur amarissimi rimpianti. «Era così forte. Poteva essere lui a raggiungere la cima!».

Questo pensiero assillerà tormentosamente i familiari del caduto con la crudeltà delle ingiustizie. Tuttavia l’annuncio deve essere stato loro di conforto. Le forze per raggiungere la cima, gli altri le hanno tratte anche dal ricordo del bravo compagno, dalla volontà di onorarne la memoria. Questa non è retorica. Puchoz insomma non è morto inutilmente, a lui spetta una parte della gloria. E adesso, dove saranno gli uomini che hanno visto il mondo da così grande altezza? Avranno potuto già ridiscendere alla base? O saranno ancora bloccati a metà della parete, chiusi in un’angusta tenda crepitante alle raffiche del vento? Lungo, oltre che aspro e travagliato, è stato il cammino alla vetta, lunga è pure la strada che riporta in basso dove gli dei della montagna non possono più fare paura.

Il colosso umiliato cercherà ora di vendicarsi scatenando la bufera? Il maltempo — l’infernale maltempo dell’Imalaia contro cui le forze umane sono pressoché zero — tenterà di tagliare ai nostri la via del ritorno? Troppo tardi. I più forti oramai sono loro, con la sua luce la vittoria li accompagna."

Dino Buzzati

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