mercoledì 31 luglio 2024

Giornalismo d'autore...


Il 31 luglio 1954, settant'anni or sono, l'Italia conquistava la vetta del K2: l'impresa fu celebrata da un bellissimo articolo di Dino Buzzati, uscito pochi giorni dopo. Eccolo, dall'archivio del Corriere della Sera. Buona lettura.

«UNA GRANDE NOTIZIA»

"Hanno vinto! Da parecchi anni gli Italiani non avevano avuto una notizia così bella. Anche chi non si era mai interessato d’alpinismo, anche chi non aveva mai visto una montagna, perfino chi aveva dimenticato che cosa sia l’amor di patria, tutti noi, al lieto annuncio, abbiamo sentito qualche cosa a cui si era persa l’abitudine, una commozione, un palpito, una contentezza disinteressata e pura. E con la fantasia abbiamo cercato di vedere i due vittoriosi sul pinnacolo ultimo del colosso diecimila volte più grande di loro. E i compagni appollaiati sugli spalti della ciclopica parete, simbolo minuscolo di un esercito schierato in profondità per la battaglia decisiva: tutti bravissimi, tutti degni di essere citati all’ordine del giorno del Paese.

«Gloria», «trionfo» sono le parole che gli Inglesi, per cui l’antiretorica è legge nazionale, hanno adoperato senza risparmio l’anno scorso quando venne vinto l’Everest. Perché oggi non dovremmo usarle noi? E poi, una invidia immensa: ecco il sentimento che abbiamo provato all’idea di quei due uomini in cima alla seconda vetta della Terra: così come quando, da bambini, si invidiavano gli eroi che sconfiggevano i draghi e gli orchi delle fiabe.

Sublime è un vocabolo rischioso, a cui ricorrere solo nelle occasioni eccezionali. Eppure non ci resta altro per definire ciò che sicuramente è avvenuto nell’animo degli alpinisti in quell’ora memorabile. Guardateli: spossati dalla fatica sovrumana, imprigionato il volto dalla maschera d’ossigeno che dà la vita ma è anche un tormento, infagottati dai giacconi imalaiani gonfi di piuma, simili a due goffi fantocci che, esaurita la carica, si muovono al rallentatore, già in preda forse alle misteriose allucinazioni degli ottomila metri, ridotti quasi a un pallido ricordo di se stessi, costretti a risparmiare anche i minimi movimenti, chè lassù semplicemente alzare un braccio costa un estenuante sforzo, all’ultimo confine delle risorse fisiche, oltre il quale c’è la morte.

Ma ora pensate alla tremenda felicità che deve aver sopraffatto i loro cuori: quella suprema solitudine, sparita l’ossessionante sagoma che da mesi incombeva su di loro, più nulla al disopra tranne il cielo, e tutto intorno, fino a perdita d’occhio, lo sterminato arcipelago dei Karakorum, ghiacciai inesplorati, catene gigantesche, vitree cattedrali, picchi paurosi, tutti, assolutamente tutti più bassi di loro. E quell’improvvisa pace interna dopo tanta tensione e tanti orgasmi, e il ricordo della casa lontana, e, legata alla piccozza, la bandierina di tre colori che finalmente sventola! Meravigliosa estasi non fatta di appagate ambizioni personali, di celebrità raggiunta, di sfrenato amore di se stessi, ma che veniva dalla coscienza di aver compiuto una gesta in sé splendida e nobile, di avere bene meritato della patria. Per loro una rarissima felicità che le parole non possono descrivere, ma anche per noi tutti.

Italiani, una vera e grande gioia. Ce n’è motivo in abbondanza. Ricordiamoci di certe esplosioni di esultanza collettiva perché uno dei nostri era arrivato primo al Tour o perché la squadra azzurra aveva vinto una importante partita all’estero. Non che si voglia disprezzare queste cose, ma al confronto che cosa meriterebbero oggi gli uomini di Desio? Era, dopo la caduta dell’Everest, la più superba e ardua rocca che restasse da conquistare. Era la massima fra le ultime superstiti occasioni che la Terra offrisse per misurare la nostra forza d’animo, la sfida più temeraria dell’uomo piccolissimo alla immensità della Natura selvaggia, ostile e sconosciuta. Era il traguardo più ambito per gli alpinisti dell’intero mondo.

Era l’esame più sgomentante non solo delle energie fisiche e dell’abilità tecnica, il che avrebbe ben poca importanza, ma della tenacia, dell’intelligenza, della serietà, del disinteresse, soprattutto delle qualità morali: il saper trovare un’ultima particella di volontà quando tutto, intorno, sembra dire: «Hai fatto perfin troppo, non vedi che non ce la fai più? Rinuncia!»; il tener duro fra i patimenti non per qualche breve ora bensì per lunghe settimane, per lunghissimi mesi: il resistere alla solitudine che in quei glaciali esilii opprime e schianta i temperamenti più orgogliosi; l’obbedire non già alla voce, così seducente, della vanità personale o del guadagno, ma alla disciplina di un interesse collettivo per cui chi magari ha dato più di tutti deve all’ultimo momento cedere il passo al compagno, per cui la gloria, se mai ci sarà, dovrà essere equamente spartita, per cui bisogna pensare più agli altri che a se stessi e per gli altri, se occorre, dare la propria vita.

Perciò tali conquiste — che da un punto di vista strettamente materiale possono sembrare addirittura futili (e c’è perfin qualcuno che dice «Son pazzie») — sono tenute nel maggior conto dai popoli civili come segno di virtù magnanime. Perciò l’anno passato la salita dell’Everest parve il più splendido dono offerto alla regina incoronata e l’ammirazione unanime di tutte le nazioni circondò gli scalatori dell’équipe britannica. Perciò la spedizione italiana è stata seguita in tutto li mondo con un interesse quasi febbrile, a cui per la verità si mescolarono talora anche ombre di diffidenza e gelosia. Perciò oggi, con riconoscenza, noi possiamo dire: onore a chi toccò la cima, onore a Ardito Desio e a tutti i suoi prodi compagni.

E dobbiamo congratularci pure con quanti — dirigenti e soci del Club Alpino Italiano — senza partecipare personalmente alla scalata, ne hanno saputo tuttavia creare le basi organizzative necessarie. Così come è doveroso apprezzare il generoso aiuto offerto dalle autorità del Pakistan, mentre un pensiero grato va ai componenti delle meno fortunate spedizioni americane; quelle di Houston del 1938 e del 1953, quella di Wiessner del 1939, che si avventurarono sui fianchi del gigante; i loro audaci tentativi, è giusto ammettere, sono stati una delle premesse più importanti del nostro successo.

C’è poi un motivo che dà alla vittoria sul K2 un significato specialmente patetico ed umano. È la croce che sorge ai piedi del picco imalaiano presso il campo-base sopra un solitario tumulo di pietre porta scritto: «Mario Puchoz », il nome della giovane guida valdostana uccisa, durante la prima fase della scalata, da una fulminea polmonite. Oggi la notizia del successo avrà rinnovato fatalmente nella sua casa di Courmayeur amarissimi rimpianti. «Era così forte. Poteva essere lui a raggiungere la cima!».

Questo pensiero assillerà tormentosamente i familiari del caduto con la crudeltà delle ingiustizie. Tuttavia l’annuncio deve essere stato loro di conforto. Le forze per raggiungere la cima, gli altri le hanno tratte anche dal ricordo del bravo compagno, dalla volontà di onorarne la memoria. Questa non è retorica. Puchoz insomma non è morto inutilmente, a lui spetta una parte della gloria. E adesso, dove saranno gli uomini che hanno visto il mondo da così grande altezza? Avranno potuto già ridiscendere alla base? O saranno ancora bloccati a metà della parete, chiusi in un’angusta tenda crepitante alle raffiche del vento? Lungo, oltre che aspro e travagliato, è stato il cammino alla vetta, lunga è pure la strada che riporta in basso dove gli dei della montagna non possono più fare paura.

Il colosso umiliato cercherà ora di vendicarsi scatenando la bufera? Il maltempo — l’infernale maltempo dell’Imalaia contro cui le forze umane sono pressoché zero — tenterà di tagliare ai nostri la via del ritorno? Troppo tardi. I più forti oramai sono loro, con la sua luce la vittoria li accompagna."

Dino Buzzati

lunedì 29 luglio 2024

Quale vacanza???

Da domani pomeriggio potrò considerarmi "in vacanza". Il guaio è che anche quest'anno trascorrerò la pausa estiva a casa. Sono fortunato: ho una casa, ho un giardino, ho tanta pace (o quasi, patriarca permettendo). Muoio dalla stanchezza; e ancora di più, muoio dalla voglia di muovermi, ma spese impreviste hanno esaurito il cash.

Mi diletto a preparare le lezioni per l'autunno (sbirciate nelle foto sopra...) e penso alle isole Eolie e ai Campi Flegrei, reconditi desideri vacanzieri a tema naturalistico. Mi limito pertanto a vedere fotografie e documentari, come il seguente, che racconta la nascita di Monte Nuovo, con l'eruzione del 1538.


Siamo a ovest di Napoli, una zona particolarmente delicata dal punto di vista vulcanologico, con mezzo milione di persone che vivono sopra un insieme di crateri, tra i quali serpeggiano fanghi ribollenti, acque termali ed emissioni gassose. Composti dello zolfo e dell'arsenico, che escono dalle bocche come gas, si raffreddano e per brinamento danno origine a cristalli di minerali unici - alcuni dei quali ritrovati solo qui.


Oggi, il Monte Nuovo appare così, tutto ricoperto di verde, abbracciato alla base da case e strade. Poco più in là, il Lago Averno, ove Virgilio pose l'ingresso all'oltretomba.


L'altro mondo può aspettare, per quanto mi riguarda. Ci sono tante cose belle in questo da vedere e da apprezzare, nonostante i predicatori di consuetudini e la loro spazzatura morale. Chissà che la Fortuna possa essere un giorno meno avara con me di quella cantata da Orff nei suoi Carmina Burana!


(Musica di C. Orff - Dipinti di W. Turner)

venerdì 26 luglio 2024

Un weekend a Falcade?

Se non sapete dove passare il fine settimana, ecco un bellissimo video su una meta da prendere seriamente in considerazione: Falcade!


Buon weekend!

MC

lunedì 22 luglio 2024

Power, sex & suicide...

Nick Lane è un biochimico e scrittore di scienza britannico. È professore di biochimica evolutiva all'University College di Londra. Ad oggi ha pubblicato cinque libri che hanno vinto diversi premi.

Di questi cinque, ne ho trovato in italiano solo uno: "Life Ascending", tradotto con il titolo "Le invenzioni della vita".


Lane si occupa di bioenergetica, con particolare attenzione all'origine della vita - tema sempre affascinante - e all'evoluzione delle cellule complesse. Queste cellule presentano oltre alla membrana esterna, al materiale genetico, alla capacità di evoluzione e a un metabolismo, anche un sistema endomembranoso: altre membrane dividono l'interno in tanti ambienti nei quali avvengono reazioni specifiche, grazie a opportuni enzimi.

I mitocondri sono minuscole strutture situate all'interno delle nostre cellule che svolgono il compito essenziale di produrre energia per la cellula sottoforma di ATP, adenosintrifosfato. Si trovano in tutti gli esseri viventi complessi e, in questo senso, sono fondamentali per la vita complessa sul pianeta. 

Presentano due membrane: una esterna, ricca di pori attraverso i quali passano piccole molecole; una interna, ricca di ripiegamenti detti creste, sulle quali termina la respirazione cellulare con la produzione di ATP. Tra le creste è diffusa la matrice dove avvengono le reazioni del ciclo di Krebs. Ma c'è molto di più in loro.

I mitocondri hanno un proprio DNA, con un proprio piccolo insieme di geni, separati da quelli presenti nel nucleo della cellula. Si pensa che una volta fossero batteri che vivevano vite indipendenti. La loro schiavitù all'interno di una cellula più grande fu un punto di svolta nell'evoluzione della vita, consentendo lo sviluppo di organismi complessi e, strettamente correlato, l'origine di due sessi. 

A differenza del DNA nel nucleo, il DNA mitocondriale viene trasmesso esclusivamente (o quasi esclusivamente) attraverso la linea femminile. Ecco perché è stato utilizzato da alcuni ricercatori per tracciare l'ascendenza umana da figlia a madre, fino alla "Eva mitocondriale". I mitocondri ci forniscono informazioni importanti sulla nostra storia evolutiva. E non è tutto. 

I geni mitocondriali mutano molto più velocemente di quelli del nucleo a causa dei radicali liberi prodotti nel loro ruolo di generatori di energia. Questo alto tasso di mutazione è alla base del nostro invecchiamento e di alcune malattie congenite. Le ultime ricerche suggeriscono che i mitocondri svolgano un ruolo chiave nelle malattie degenerative come il cancro, attraverso il loro coinvolgimento nell’accelerare il suicidio cellulare.

I mitocondri, quindi, sono fondamentali per il potere, il sesso e il suicidio: Power, Sex and Suicide. In questo libro affascinante e stimolante, Lane riunisce gli ultimi risultati della ricerca in questo entusiasmante campo per mostrare come la nostra crescente comprensione dei mitocondri stia facendo luce su come si sia evoluta la vita complessa, perché sia nato il sesso (... perché non germogliamo e basta? - Si chiede a questo punto l'autore. E io aggiungo: - Perché preti e parenti invadenti, senza ritegno ne vergogna alcuna, vogliono costringerci a tutti i costi al matrimonio?), e perché invecchiamo e moriamo. 

Questa comprensione è di fondamentale importanza, sia per tentare di capire come siamo nati noi e tutte le altre forme di vita complesse, sia per poter controllare le nostre malattie, ritardare la nostra morte per degenerazione e soprattutto per conservare le energie (tradotto: tanto ATP) necessarie per mandare a quel paese chi ci vuole costringere a compiere scelte contro la nostra volontà.

venerdì 19 luglio 2024

Per l'anima di Durante

Anche oggi concedo un post alla musica, proponendo l'ascolto del Magnificat di Francesco Durante (1684-1755), compositore della Scuola Napoletana, allievo di Alessandro Scarlatti e maestro di Jommelli, di Traetta, di Sacchini, di Paisiello e di Pergolesi. Il Magnificat è stato attribuito anche a quest'ultimo autore. Al tempo e anche per molti anni dopo la sua morte, Durante fu ritenuto per l'Italia quel che Bach era per la Germania: un severo e dotto contrappuntista, autore di molti lavori sacri e di nessuna pagina per il teatro.

Il testo del brano è ripreso dal Vangelo di Luca (Lc 1,46-55): Maria incontra Elisabetta e il figlio che costei attende in grembo sussulta di gioia per l'incontro. "L'anima mia magnifica il Signore...": e i versetti riprendono il cantico di Anna, madre di Samuele (1Sam, 2,1-2), che a loro volta riecheggiano un antico inno ad Iside.

Perché propongo questo ascolto oggi? Per tre motivi. 
  • Primo, perché volevo condividere con voi un brano di un autore che ritengo interessante e che sto riscoprendo in questo periodo, dopo averlo abbandonato per anni insieme a tutti gli altri.
  • Secondo, perché oggi - per i devoti - ricorre una festa mariana che ha trae le sue origini a Parigi, nell'estate del 1830...
  • Terzo: esattamente dieci anni fa mi sono ritrovato ad essere vicino a una persona in un momento particolare della sua vita. Quell'episodio mi ha scosso particolarmente, ricordarlo non mi lascia indifferente e sento un gran bisogno di esserne in qualche modo purificato. Più che del "Magnificat", necessiterei di un "Miserere"... 

F. Durante, Miserere

mercoledì 17 luglio 2024

17 + 7 = 24


"I preludi" è il titolo di un lavoro orchestrale di Liszt composto tra il 1845 e il 1854. Inizialmente, il brano fu concepito come ouverture a un'opera sinfonico-corale ispirata a "I quattro elementi" del poeta Joseph Autran e successivamente completato e presentato da solo, con un riferimento letterario alla produzione del più famoso Alphonse de Lamartine su suggerimento dell'amata contessa Caroline von Wittgenstein

In questa forma, l'opera fu eseguita in prima assoluta il 23 febbraio 1854 e presentata come poema sinfonico: il termine fu introdotto proprio in relazione ad essa. Per la prima edizione a stampa, del 1856, la stessa contessa scrisse una presentazione, poi accorciata come segue:

Che cosa è la nostra vita se non una serie di preludi a quell'Inno sconosciuto, la cui prima e solenne nota è intonata dalla Morte? L'amore è l'alba splendente di tutta l'esistenza; ma qual è il destino in cui le prime delizie della felicità non sono interrotte da qualche tempesta, il cui soffio mortale dissipa le sue belle illusioni, il cui lampo fatale consuma il suo altare; e dov'è l'anima crudelmente ferita che, uscendo da una di queste tempeste, non si sforza di riposare il suo ricordo nella calma serenità della vita nei campi? Tuttavia l'uomo difficilmente si abbandona a lungo al godimento della benefica quiete che all'inizio ha condiviso nel seno della Natura, e quando "la tromba suona l'allarme", si affretta, al posto pericoloso, qualunque sia la guerra, che lo chiama nei suoi ranghi, per recuperare finalmente nel combattimento la piena coscienza di sé e l'intero possesso della sua energia.

La presentazione individua quattro momenti fondamentali, cui corrispondono altrettante sezioni nel brano:

  • l'amore, alba splendente di tutta l'esistenza (da 0 a 6'30" circa);
  • le tempesta della vita (da 6'30" a 8'30" circa);
  • la quiete della campagna e della natura (da8'30" a 12'50" circa);
  • la coscienza di sé (da 12'50" a 14'20") e l'energia della vita (da 14'20" alla fine). 
Ecco i temi musicali, esposti nella prima parte (l'amore), sviluppati nella seconda parte (la tempesta) e ripresi e variati nella terza e nella quarta:


La cadenza plagale conclusiva sembra quasi un poderoso e corale Amen al termine di un solenne canto liturgico.

Dopo Beethoven, Liszt e Verdi, per completare la tetralogia del destino in musica dovrei dedicare un post (ma non lo farò) a Tchaikovskij e alla sua Sinfonia "Patetica", con il drammatico e lungo primo movimento, il valzer nell'insolito tempo in 5/4, la marcia militare in 12/8 a sostituire lo scherzo e il tragico Adagio lamentoso conclusivo, che va a spegnersi in pianissimo nel tetro pizzicare dei violoncelli e dei contrabbassi: ben altra atmosfera rispetto al tripudio e al giubilo del poema di Liszt o del finale della Quinta beethoveniana. Manco a dirlo, lo percepisco più sincero e più affine al mio sentire.

domenica 14 luglio 2024

Kleiber e Beethoven, il tema del destino

Oggi ci regaliamo l'ascolto integrale della Quinta Sinfonia di Beethoven, diretta da Carlos Kleiber (1930-2004), grande direttore d'orchestra di cui ieri, 13 luglio, è ricorso il ventennale della scomparsa.

Con il padre Erich, anche egli musicista di fama internazionale, Carlos aveva un rapporto assai difficile: il genitore lo destinò agli studi di chimica presso il politecnico di Zurigo nonostante già da bambino egli mostrasse una spiccata attitudine per l'arte dei suoni. Volontà del giovane e destino si sono incontrati ed ecco il maestro sul podio per dirigere uno dei brani più significativi della storia della musica occidentale.


Nella celebre lettera del 29 giugno 1801, indirizzata al medico Franz Wegeler (1764-1848) di Bonn, Beethoven - alle prese con i primi significativi fastidi all'udito - scrisse:

Plutarco mi ha consolato e mi ha ispirato la rassegnazione. Sono fermamente risoluto a contrapporre alle avversità del destino un'anima forte, anche se vi sono dei momenti in cui io sono la creatura più disgraziata del mondo. 

Nel 1804, mentre terminava la partitura dell'Eroica, cominciava a raccogliere idee e a mettere su carta i primi appunti della sua Sinfonia in do minore, completata ed eseguita per la prima volta nel 1808.

L'incipit acefalo, con tre crome e una minima coronata, è un banco di prova per ogni direttore. Per il profano è quel famoso "ta-ta-ta-taaaa" che prelude all'entrata in scena di qualcosa di inaspettato. "Così il destino bussa alla porta", avrebbe risposto Beethoven a chi gli chiedesse il significato di questa idea musicale che anima tutti e quattro i movimenti della sinfonia.

Il primo movimento è costruito in forma sonata, giocata sul contrasto tra due temi: il primo incisivo e drammatico, il secondo più disteso. Tesi e antitesi, direbbe Hegel. E la sintesi si ha, dopo una fase centrale di sviluppo dove i contrasti si accendono, nella ripresa finale, conclusa da una lunga coda dove il destino che bussa alla porta fa sentire ancora tutta la sua forza drammatica. Approfondiamo un po' il discorso con qualche nota...


La seconda parte a cui si riferisce il testo è l'elaborazione o sviluppo, cui segue la ripresa finale: ascoltate come il secondo tema esca stanco e ansimante, spezzato tra archi e fiati; e come il primo tema incalzi nella coda e l'armonia generale concorra a imporre prepotentemente la cupa tonalità d'impianto. Do minore.

Il secondo movimento è costituito da un tema con variazioni, nella tonalità di La bemolle maggiore: ascoltate con attenzione, qua e là, pianissimo, tra i legni e gli archi in pizzicato, riecheggiano "tre note corte e una lunga", eco del primo movimento.

Il terzo movimento, lo scherzo, dopo un'introduzione misteriosa e sommessa, riprende negli squilli dei corni il motto "tre corte e una lunga", interrotti nella parte centrale da un rozzo fugato. Sul finire del movimento, l'introduzione e il motto sono ripresi, non più in fortissimo ma sottovoce, tra legni ed archi in pizzicato. Una coda prepara l'ascoltatore al radioso modo maggiore con cui inizia trionfalmente il quarto movimento, anch'esso costruito in forma sonata, con l'esposizione dei due temi e il loro sviluppo. Prima della ripresa conclusiva, Beethoven richiama il misterioso finale dello scherzo: in questo viaggio musicale nel dolore dell'esistenza, dal dramma iniziale alla radiosa vittoria finale, uno spazio per l'ombra del dubbio rimane.


Buona domenica!

venerdì 12 luglio 2024

Quale forza contro il destino?

Tre rintocchi all'unisono, intervallati da una pausa e ripetuti per due volte. Così la sorte sembra bussare alla porta nell'ouverture dell'opera "La forza del destino", che Giuseppe Verdi scrisse nel 1862 per il teatro di San Pietroburgo, su libretto di Francesco Maria Piave

Nel brano strumentale, i temi dell'opera vengono esposti e creano il clima drammatico della rappresentazione che seguirà: la storia di un amore contrastato tra Leonora, che si ritira a vita eremitica, e Alvaro, che diventa soldato per fuggire da Carlo, fratello di lei che cerca vendetta e per compierla ucciderà la sorella. Leonora spirerà tra le braccia di Alvaro ed egli, rimasto solo in questa valle di lacrime, maledirà il proprio destino. 

All'origine della vicenda v'è il rifiuto del padre ad acconsentire alle nozze tra Leonora e Alvaro: è troppo spesso la volontà paterna ad essere mortifera, tanto nella finzione scenica quanto nella vita reale - e ne so qualcosa: per mia fortuna non è mai scorso sangue, in casa, ma per mia somma sventura tante lacrime si.

E purtroppo, come ogni mese di luglio da un quarto di secolo a questa parte, i pensieri ricadono sulle mie aspettative, falciate come l'erba nei pascoli di montagna e lasciata seccare.

Guardo alla natura da scoprire e avrei voluto un' eternità per inebriarmi di meraviglie.

Guardo alle miserie umane e avrei desiderato una vita per servire, a patto di non dover diventare schiavo di consuetudini, come spesso capita a chi si inserisce in contesti troppo strutturati. 

Niente padri, padrieterni e patrie: non fanno per me. Non sento il bisogno di mettere un pezzo di metallo sull'anulare sinistro, come avrebbero preteso certi congiunti, taluni colletti romani e non ultima una cretina che mi rispondeva a un'email nella quale chiedevo informazioni per iscrivermi (finalmente!) al corso di laurea dei miei sogni infranti.

Purtroppo per me altri avrebbero deciso tempo fa che il mio destino dovesse avere i contorni di un ibrido tra un animale da riproduzione e una bestia da soma. E mi ritrovo condannato a non aver potuto realizzare nessuno dei miei progetti, ad aver lottato per non realizzare quelli decisi da altri e, peggio, a dover portare per tutta la vita il cognome dei miei carcerieri. Un ergastolo.

Vorrei avere la forza per illudermi, come Leonora, che nel dramma verdiano invoca la protezione della Vergine degli Angeli

E invece, come il volteriano Candido, mi ritiro a coltivare in pace il mio giardino, sul quale proprio in questo istante incombono venti di tempesta... 


Buon fine settimana.

domenica 7 luglio 2024

Dall'Oceano Indiano al salotto di casa

L'Oceano Indiano appare come il meno presente nelle descrizioni offerte dai libri scolastici di storia e di geografia: forse perché cominciamo a raccontare Fenici, Greci e le altre civiltà del Mediterraneo; poi passiamo ai Romani e al Medioevo, con un fugace accenno ad Arabi e Normanni; poi la peste nera, l'Umanesimo e quindi i viaggi di Colombo e la tratta degli schiavi attraverso l'Atlantico, per ritornare sul continente europeo con le riforme religiose, la Guerra dei Trent'anni e tutto il resto fino alla Seconda Guerra mondiale, quando il Giappone si allea con le potenze dell'asse e quindi ecco comparire sul libro la carta del Pacifico.

Se dedicassimo maggior spazio a raccontare le esplorazioni geografiche aggiungendo qualche nota sui luoghi toccati dai naviganti, potremo scoprire davvero non tanto un nuovo mondo, quanto qualcosa di nuovo su questo mondo, vecchio 4.6 miliardi di anni: ad esempio, qualche pianta singolare, come la nepente, diffusa soprattutto nel Sud Est Asiatico, ma anche nello Sri Lanka e in Madagascar.

Vari nomi le furono attribuiti, ma quello attuale le fu dato da Linneo che chiamò questo genere botanico prendendo a prestito dal greco antico un'espressione che significa senza dolore, immaginando che un botanico del suo tempo, dopo aver perigliato per settimane tra i viaggi in mare e i pericoli della foresta, una volta imbattutosi in questo esemplare sarebbe stato ripagato da tutte le fatiche.

Il genere comprende oltre 180 specie e tutte hanno una struttura simile, con lo stelo centrale e le foglie dalle quali pendono gli ascidi. Ogni ascidio è chiuso da un opercolo che ha la funzione di non far entrare l'acqua piovana, la quale diluirebbe la soluzione di enzimi. Tale soluzione fu descritta dal botanico Hooker nel 1874 e serve alla pianta per digerire gli insetti di cui si nutre: le prede sono attratte con secrezioni zuccherine e quindi dissolte da fermenti digestivi.

Le dimensioni della pianta e degli ascidi cambiano in base alla specie. Se coltiviamo un esemplare in vaso come pianta d'appartamento, esso rimane di dimensioni contenute ma può rivelarsi essere molto longevo. Una volta formati, gli ascidi durano fino a otto mesi, a patto di nebulizzarli spesso con acqua: la pianta è tipica di climi molto umidi. Ella non avrà bisogno di catturare gli insetti se gli forniremo la giusta concimazione, ma in questa stagione lascio che faccia volentieri scorpacciata di mosche e di zanzare.

Le nepente vive nella penombra delle foreste equatoriali - immaginate di essere nel Borneo, aiutandovi con il video sopra - e ha bisogno di una temperatura compresa tra 20 e 25°C, comunque non inferiore a 15°C; non ama la luce solare diretta ma opportunamente filtrata, come in natura. 

giovedì 4 luglio 2024

A lezione da Marie Curie

L'altra sera ho scambiato brevemente alcuni messaggi con un giovane collega e lui, ad un certo punto del discorso, mi dice di ripensare spesso a quel che gli raccontavo a riguardo di quello che avrei voluto fare io, nella vita, e non ho fatto. 

E io gli ho risposto che è il motivo per cui non mi piace fare il commissario alla maturità, contesto nel quale devo sentire giovani che sognano il loro futuro e ripensare a mio padre che venticinque anni fa mi ha negato tutto il giorno dopo che ho finito il mio esame di stato con un 98 a coronare un percorso scolastico che non ho amato - anzi, in cui ho sofferto tanto. Qualcuno mi dice che le rose più belle sbocciano sulla sommità di un gambo irto di spine...

Lui aveva bisogno di manovalanza a basso costo nella sede provinciale dell'associazione di cui era (ed è tuttora) presidente e i miei sogni sono stati sacrificati sull'altare pagano di un redivivo Moloch affamato di tessere. Fottute, maledette tessere

Alla fine, pur tra mille peripezie, qualcosa ho anche combinato: abbandonata l'idea di darmi alla musica, mi son dedicato prima alla filosofia e alla religione e poi alle scienze e alla chimica, anche se per un progetto personale in vista di un orizzonte professionale mi interessava molto di più la farmacia

"La vita non è facile per nessuno di noi", diceva Marie Curie (1867-1934). "E allora? Noi dobbiamo perseverare e soprattutto avere fiducia in noi stessi. Dobbiamo credere che siamo dotati per qualcosa e che questa cosa debba essere raggiunta".

Marie Curie: oggi, 4 luglio, ricorre il novantesimo anniversario della sua morte, a causa di un'anemia aplastica dovuta ai materiali radioattivi che manipolò nell'arco di una vita dedicata alla ricerca. A lei sono stati dedicati libri, documentari, film, tra i quali il recente "Radioactive". Ecco, nella finzione cinematografica, il colore blu del radio, come descritto da Marie nei suoi quaderni di laboratorio:

E mentre il marito Pierre Curie pronuncia la sua Nobel Lecture, augurandosi che il campo di studi aperto da lui e dalla moglie porti pace e benessere al genere umano, le immagini raccontano tutt'altro...

A Marie Curie dedico alcune lezioni, in quinta, sottolineandone non solo i meriti scientifici ma anche l'attenzione per i temi civili: la libertà della donna, l'emancipazione attraverso lo studio, il servizio al fronte durante la Grande Guerra e pure il fatto che sia stata la prima donna a guidare un camion, per condurre nei pressi delle trincee i radiografi da campo.

Molti alunni, purtroppo, insistono in sede d'esame più su questi aspetti, pertinenti agli insegnamenti di Educazione Civica, per dribblare malamente i collegamenti con contenuti più approfonditi di Scienze e di Fisica, materie che notevolmente spaventano gli studenti per la loro complessità. A loro, Marie Curie direbbe che "niente nella vita va temuto: deve essere solamente compreso. Ora è tempo di comprendere di più, così possiamo temere di meno". E a proposito della bellezza della Scienza, ella racconterebbe agli stessi che "lo scienziato nel suo laboratorio non è solo un tecnico: è anche un bambino posto di fronte a fenomeni naturali che lo impressionano come un libro di fiabe".

Purtroppo, il mondo produttivo odierno ha bisogno di tecnici, non di bambini e di fiabe. Io, che non sono un tecnico ma un bambino con la barba bianca e un 110 e lode in chimica, ho rifiutato una serie di proposte di impiego che non mi interessavano e che spero di non ricevere più: non sono un chimico se non di formazione, vado ripetendo spesso. Mi ritengo essere invece un farmacista mancato che di lavoro fa per sua scelta l'insegnante in una scuola paritaria. Credo fermamente sia questo il servizio più bello che possa offrire con i titoli che ho conseguito, nonostante il presidente-padre desiderasse altro.  

"Se posso essere sincero, se posso essere una voce esterna, lei come professore per me nella vita ha vinto tutto": così mi messaggiava un (ormai ex) alunno l'altra sera. Una conferma alla mia intuizione? Voglio pensare di si. Lasciatemi illudere che sia così.