Ieri pomeriggio mi sono dedicato pienamente alla lettura: tra le mani avevo una recente edizione per i tipi di Adelphi di un breve racconto di Jack London, La peste scarlatta, che potete consultare QUI.
Al termine del libro, un breve saggio di Ottavio Fatica, curatore dell'edizione, richiama altri autori che, prima e dopo London, si sono cimentati col genere post-apocalittico, da Mary Shelley in poi.
Nel racconto, pubblicato per la prima volta nel 1912, l'autore immagina che nel 2013, in un mondo governato politicamente dal Consiglio dei Magnati dell’Industria (qualcuno adesso farà correre la mente associando tal consiglio al NWO), scoppia un’epidemia dovuta a un misterioso germe - che offre allo scrittore il pretesto per un ragguaglio sul lavoro dei batteriologi.
Koch era morto solamente due anni prima della pubblicazione del racconto e così anche Ricketts - quest'ultimo cercando di studiare il tifo messicano: a lui si è forse ispirato London per tratteggiare le figure di medici e ricercatori, come il dottor Trask a pagina 39, che muoiono come eroi cercando di curare i pazienti afflitti dal terribile flagello? Il germe che ne è causa è descritto come rapidamente trasmissibile: in breve tempo l’intero genere umano scompare.
"Con l'arrivo della morte scarlatta, il mondo è andato in pezzi nel modo più assoluto e irrimediabile. Diecimila anni di cultura e civiltà svaniti in un batter d'occhio, fugaci come schiuma".
La narrazione prosegue tratteggiando scenari che abbiamo già letto sfogliando l'inizio del Decameron di Boccaccio o le pagine che Manzoni dedica alla peste di Milano: barbarie, violenza, furti, omicidi, stupri, incendi.
"La civiltà crollava e ognuno doveva pensare a se stesso" - scrive London dipingendo il quadro della situazione. "Anche gli animali tornavano dovunque allo stato brado e si divoravano tra loro".
Trascorsi sessant’anni dal dilagare della peste scarlatta, nello scenario di una California selvaggia (sopra, lo Yosemite Park), con pochi superstiti costretti a vivere come nell’età della pietra, un vecchio professore di letteratura (categoria particolarmente invisa a London), di fronte a un pugno di ragazzi selvaggi – i nipoti degli altri pochi scampati – riuniti intorno a un fuoco dopo la caccia quotidiana, racconta l'orrore che aveva vissuto.
Con il pretesto del morbo inarrestabile, gli uomini si sono affrettati nel ritornare a stadi inimmaginabili di crudeltà, forse incarnata nella figura di Bill, l'autista che ha ridotto in schiavitù Vesta, la figlia del suo vecchio (e ricchissimo) datore di lavoro. Una critica di London al capitalismo destinato a crollare non per le rivoluzioni ma a causa della Natura e delle sue leggi - davvero improntante all'uguaglianza: i patogeni non fanno distinzione di censo, di etnia, di grado d'istruzione, di classe sociale.
Per restare in tema, richiamo qui un altro romanzo (oggi disponibile anche come Grafic-Novel): L'ombra dello scorpione di Stephen King, la cui trama si colloca in un mondo alternativo nel quale la civiltà è stata cancellata da un'epidemia globale. Chissà perché ne hanno tratto ben due serie TV...
La storia inizia con la morte di quasi tutta la popolazione dell'America settentrionale (e, presumibilmente, del resto del mondo) in seguito alla dispersione di un'arma biologica sfuggita al controllo dei ricercatori nei laboratori del governo.
Tale arma è costituita da un virus, chiamato formalmente Progetto Azzurro e in gergo come Captain Trips. Tale virus risulterebbe da una mutazione letale dell'agente eziologico dell'influenza, caratterizzato - nella finzione della narrazione, ben s'intenda! - da un tasso di infettività del 99,4% ed un tasso di letalità del 100%.
Questo virus - protagonista del romanzo - muterebbe ogni volta che il sistema immunitario di una persona arriva ad una posizione di difesa. Per lo stesso motivo, è impossibile ottenere un vaccino efficace. Il corpo umano non può produrre gli anticorpi necessari per fermare il virus, perché ogni volta che il corpo produce l'anticorpo giusto, il virus è già mutato, annullando l'effetto dei nuovi anticorpi. Il risultato, inevitabilmente, è la morte.
Ma ogni morte ha la sua scusa, recitava un vecchio adagio che ricordava spesso la mia bisnonna Orsola: infatti, nel romanzo si muore anche di altro e uno dei personaggi finisce all'altro mondo per un'appendicite, dopo un disperato tentativo di operazione chirurgica d'urgenza (senza anestesia, non disponibile in questo mondo post-apocalittico).
Per concludere questo post (sempre perché ogni mort l'ha la so scusa e quei che resta fa la busa), accosto un altro brano - di vera cronaca, stavolta, a firma di Massimo Gramellini. La domanda che pongo è: come tamponare queste derive?
Buon weekend!
Nessun commento:
Posta un commento