In questi giorni ho riordinato alcuni vecchi volumi, soprattutto di poesia e di letteratura, i quali hanno trovato posto sulla vecchia libreria. Era quella della cameretta dove dormivo quand'ero bambino: oggi trova posto in corridoio.
Tra i diversi volumi che mi son capitati tra le mani dopo tanto tempo c'è "Profutura": una raccolta di versioni di latino a cura di Favarin e Pessolano Filos (ed. SEI).
Tra i brani con i quali fare esercizio di traduzione dal latino all'italiano, è riportata quasi per intero la Passio Sancti Massimiliani. L'impianto narrativo del martirio di questo santo è modellato dall'anonimo autore sulla falsariga dei capitoli dei Vangeli dove si raccontano il processo e l'esecuzione della condanna di Gesù.
Qui Massimiliano, un giovane cittadino romano di Tebessa (città vicina a Cartagine), è sottoposto a giudizio per il suo ostinato rifiuto del servizio militare obbligatorio. Per intero è riportato il dialogo tra il console Dione e il ragazzo: "accipe signaculum et milita" - ordina il primo; "non milito saeculo sed milito Deo" - risponde il secondo. Trovate una parte del testo QUI.
Alla fine, giunge la condanna per decapitazione, alla quale il giovane risponde lodando e ringraziando il Signore. La sentenza è eseguita (il 12 marzo 295); anche la successiva descrizione della sepoltura ricorda molto quella narrata dai Vangeli.
Uomini che rifiutano le armi: ce ne sono sempre stati, in ogni epoca e in ogni dove, per i più disparati motivi - religiosi, ideologici, filosofici. I gruppi sociali ai quali appartenevano hanno sempre rimarcato le loro scelte come un disvalore da condannare, sia in tempo di pace sia in tempo di guerra.
Anche la Chiesa - dall'editto di Teodosio in poi - ha condannato le scelte di chi ha incrociato le braccia di fronte alle armi, almeno fino a quando don Lorenzo Milani, don Primo Mazzolari, Padre Ernesto Balducci e altri sacerdoti più anonimi fecero sentire la loro voce fuori dal coro; e con essa, quella di molti intellettuali laici, alcuni ispirati a Gandhi - come il filosofo Aldo Capitini, che ispirerà a sua volta Pietro Pinna (sotto in foto, dal web), riconosciuto come il primo obiettore per motivi politici nella storia dell'Italia repubblicana.
Gli obiettori condannati erano rinchiusi nelle carceri militari, sorvegliati a vista e obbligati a portare l'uniforme; solo quando uscivano per le traduzioni (passaggi da un istituto di pena ad un altro), sopra l'uniforme dovevano indossare le tute blu degli operai, mentre i polsi erano imprigionati negli schiavettoni (quelle pesanti manette a vite usate un tempo - che saranno abolite solo negli anni di Tangentopoli, perché non figuravano bene ai polsi dei colletti bianchi e dei politici indagati).
Stando ai racconti degli stessi, che si leggono in internet o in una letteratura di nicchia che meriterebbe di essere conosciuta maggiormente, una robusta catena di ferro - fissata con appositi lucchetti - collegava un detenuto all'altro per formare una catena umana, costretta a sfilare per le stazioni ferroviarie, davanti alla folla degli immancabili ben-pensanti che volgevano altrove lo sguardo, indignati. E le traduzioni in treno (da un carcere all'altro) potevano durare moltissime ore, anche giorni: sempre con la tuta blu addosso, gli schiavettoni ai polsi e la coscienza libera.
Il riconoscimento dell'obiezione di coscienza si ebbe solo mezzo secolo fa, il 15 dicembre 1972, con la Legge 772: gli obiettori - riconosciuti tali, potevano svolgere un servizio civile sostitutivo, di durata maggiore rispetto al servizio militare.
Altri interventi legislativi importanti in merito sono la L. 230/98 e la L. 130/07 - che si occupa della revoca dello status di obiettore di coscienza per quanti scelgano di partecipare a concorsi o di svolgere impieghi che comportino il porto e l'impiego di armi. Non è il mio caso.
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