QUI ho letto alcune dichiarazioni attribuite all'onorevole Mariastella Gelmini, per la quale, secondo quanto riportato dall'estensore dell'articolo, sulla scuola permarrebbe un approccio "sessantottino".
Ora, all'aggettivo sessantottino abbiamo imparato a dare progressivamente una connotazione non sempre positiva, anche se è innegabile che grazie al Sessantotto qualche passo è stato fatto: non so se dire "avanti", sicuramente "oltre" il modello precedente - che qualcuno mitizza troppo facilmente e che magari poteva andar bene un tempo per quell'angolo del Mediterraneo chiamato Regno d'Italia, non per un mondo contemporaneo sempre più globalizzato.
Certo, da liceale mi son sentito dire anch'io - da docenti che conserva(va)no un'impostazione pre-sessantottina - che il liceo era per i ricchi e noi, figli di operai (mio padre era impiegato all'Enel, in distacco sindacale), dovevamo fare la scuola professionale. In nome di questo principio (ma non solo) si sentivano liberi di distruggerci sul piano morale e sul piano emotivo, oltre che su quello scolastico.
Per fortuna poi c'erano insegnanti preparatissimi, assai magnanimi e profondamente intelligenti (con riferimento soprattutto all'intelligenza emotiva, dote indispensabile per un docente) che controbilanciavano tali angherie, appassionandoci alla letteratura e alla filosofia, alla storia dell'arte e alla matematica (erano queste le materie che studiavo più volentieri, soprattutto negli ultimi tre anni).
Forse la scuola uscita dalle proteste del Sessantotto sembra aver scosso, almeno un poco, questo classismo incancrenito nella società italiana e ancora vivo nella provincia, come quella dove sono nato, cresciuto e dove in qualche modo (soprav)vivo.
Il conseguimento di un titolo di studio superiore (non scontato quando ero adolescente: ho visto molti coetanei abbandonare gli studi) e di una laurea era (era!) un passo necessario per una vita lavorativa migliore, sognando mansioni più appaganti e magari più creative.
Quel che sognavo io, al tempo, l'ho scritto tempo fa
QUI: poi la scuola (rigorosamente statale, da vecchio socialista mio padre mai mi avrebbe mandato a scuola dai preti, anche se poi ho scelto di andarci io finito il liceo per intraprendere un importante quanto necessario percorso di rinascita) e soprattutto la famiglia hanno pensato bene di demolirmi, lasciandomi tanta amarezza e altrettanto disprezzo, ma questa è un'altra storia.
L'articolista attribuisce all'onorevole Gelmini la seguente affermazione, che riporto virgolettata:
"Siamo ancora legati al concetto di valore legale del titolo di studio; noi invece pensiamo che parole come talento, merito, innovazione, valutazione, competenza siano parole da declinare concretamente; c’è ancora molto da fare in tal senso."
Sulla storia del valore legale del titolo di studio: magari lo abolirei anche, a partire da quello del dottore di ricerca, visto che l'accesso per ottenere tale titolo non è libero ma avviene per concorso - e si sa come sono i concorsi nel nostro paese (ma tutto il mondo è paese). Nella migliore delle ipotesi (e di ipotesi parlo, sia ben chiaro!) sono costruiti sulla persona che deve vincerli (e qualcuno potrebbe essere invitato anche a non partecipare per non sfavorirla); nella peggiore, sono vinti da persone meritevoli che poi si vedono preferire altri candidati in base a criteri che non ho le competenze per indagare e sui quali allegramente sorvolo. Tanto "puzzo troppo da prete", etc. etc. etc.
In questa panoramica, le parole talento, merito, innovazione, valutazione, competenza, potrebbero avere un valore se vivessero del loro significato e non come inutili slogan che fanno vibrare l'aria e solleticano l'orecchio di qualcuno - e la peristalsi intestinale in molti altri, incluso lo scrivente.
Infine, un commento sul "molto da fare" che resta: la prima cosa è auspicare di avere ministri e funzionari competenti che possano risistemare lo scempio attuato dalle varie "riforme" degli ultimi 40 anni, da quella del 1985 alla famigerata riforma Berlinguer, dalle riforme Moratti - Gelmini fino all'orrore della "buona scuola". Un'utopia.
Aggiungo, per concludere, alcune considerazioni che mi stanno a cuore. Molto spesso si utilizzano i termini "scuola pubblica" e "scuola statale" come sinonimi e questo porta ad una confusione di "pubblico" con "statale" - che non sono sinonimi.
Il servizio pubblico può essere erogato dallo stato (scuola pubblica statale) oppure da un'azienda (scuola pubblica paritaria) che offre il medesimo servizio rispettando programmi e obiettivi della scuola di stato (e che per questo è oggetto di periodici controlli severi da parte del MIUR).
Nemmeno "scuola paritaria" e "scuola privata" sono sinonimi. Le "vere" scuole private offrono un servizio diverso (magari ispirato ai dettami di qualche pedagogista di valore, come la Montessori o Steiner), anche se di qualità, ma con obiettivi e modi differenti da quelli previsti nella scuola di stato e nella paritaria.
Poi ci sono i Centri studi, che preparano gli studenti a sostenere gli esami di idoneità nelle scuole statali o nelle scuole paritarie: un altro mondo che dovrebbe essere conosciuto, vastissimo e complesso. E poi ci sono i Centri di formazione professionale, che permettono di assolvere all'obbligo scolastico e di orientarsi al mondo del lavoro fin da subito.
A fronte di questo variegato panorama, vi chiederete il perché di questa necessaria pluralità. Troviamo la risposta andando ad indagare il tipo di utenza: troppo semplice distinguere tra i poveri nella scuola di stato e i ricchi nella scuola paritaria o privata - dove, nel distorto immaginario collettivo, essi pagherebbero e si comprerebbero il diploma o anche la laurea: cosa non sempre vera, anzi...
Ci sono anche persone meno abbienti che frequentano la scuola non statale e per motivi che dovrebbero far riflettere: sono spesso ragazzi - vittime di bullismo, ragazzi che hanno avuto malattie gravi e sono stati ospedalizzati per molto tempo, ragazzi che hanno storie personali drammatiche e importanti per i quali non possono esistere solo l'orario, i voti, il registro e la pagella.
Sono quasi sempre ragazzi che hanno bisogno di essere accolti ed ascoltati, prima ancora che di essere educati ed istruiti: quegli stessi ragazzi che prima Filippo Neri e poi il Calasanzio raccoglievano per le strade di Roma, e sul loro esempio si sono adoperati - nei secoli successivi e in vari luoghi - Girolamo Emiliani, Giovanni Battista de La Salle, Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco, Carlo Gnocchi, Lorenzo Milani, Luigi Giussani, etc. E anche qualche anima laica, oltre a tutti questi e molti altri sacerdoti. Per concludere il post: in un istituto paritario di impostazione laica ho l'onore di lavorare come docente da qualche anno, con immense soddisfazioni personali.