L'epatite ha accompagnato la storia del genere Homo, spesso associata al caratteristico colorito assunto dalla cute, noto come ittero. Scriveva Ippocrate:
"Quando l'ittero sopravviene nelle febbri prima del settimo giorno, è un cattivo segno, a meno che non vi siano scariche acquose dagli intestini" (Aforismi, IV,62).
E ancora:
"Nelle febbri, se l'ittero sopravviene al settimo, al nono, all'undicesimo o al quattordicesimo giorno, è un buon segno, a meno che l'ipocondrio destro non diventi duro: altrimenti è un cattivo segno" (ib. IV,64).
Fonte: https://le-citazioni.it/frasi/335987-ippocrate-di-coo-quando-littero-sopravviene-nelle-febbri-prima-del/
Solamente nella prima metà del XX secolo, la Ricerca ha cominciato a far luce su questo male che colpisce il fegato e, visto il ruolo centrale di quest'organo (chiamato dagli inglesi "liver", colui che fa vivere), tutto l'organismo.
La prima distinzione fu introdotta nel 1947 dal britannico McCallum, il quale, dopo aver osservato alcuni soldati ammalarsi di epatite in seguito all'assunzione di cibi contaminati o a trasfusioni di plasma, intuì l'esistenza di due tipi di epatite, che classificò a seconda della modalità di trasmissione: l'epatite A, detta "infettiva", trasmessa per via oro-fecale; l'epatite B, detta "da siero" o "da siringa", trasmessa per via parenterale.
Mentre i virologi cercarono di isolare gli agenti infettivi e di coltivarli in vitro, alcuni ricercatori rivolsero i loro interessi ad altri dati.
ENZIMI. Le transaminasi sono una sotto-sottoclasse di enzimi predisposti a trasferire gruppi amminici da un amminoacido a un chetoacido, usando la vitamina B6 come cofattore. Tali enzimi furono scoperti all'università di Napoli nel 1955, grazie alle ricerche di Fernando De Ritis, Mario Coltorti e Giuseppe Giusti.
Essi notarono un aumento delle transaminasi nel plasma sanguigno nei pazienti sofferenti di fegato: nel 1957, misero a punto un test enzimatico per la diagnosi dell'epatite virale, basato proprio sull'attività sierica delle transaminasi (cfr. Clin. Chim. Acta. 1957; 2:70–4).
In un articolo del 1959, gli stessi descrissero "l'attività enolasica del plasma e del fegato nell'epatite sperimentale da virus MHV-3 Craig" (QUI). In questa forma di epatite (MHV significa "mouse hepatitis virus" = virus dell'epatite murina, un virus a RNA appartenente ai coronaviridae, QUI), l'attività plasmatica dell'enzima enolasi aumenta significativamente dopo quarantotto ore dall'infezione, raggiungendo i valori più elevati a settantadue-novantasei ore. La stessa attività nel fegato diminuisce solo dopo la settantaduesima ora, mentre negli stadi precoci dell'infezione non è modificata. Secondo gli Autori, il significato fisiopatologico della modificazione enzimatica nel plasma è correlato alla necrosi epatica (sindrome enzimo-plasmatica dell'epatite virale).
VIRUS. Come racconta Mukherjee nel suo celebre libro "L'imperatore del male. Breve biografia del cancro" (pp. 431-433), nel 1963, il biochimico americano Baruch Blumberg scoprì l'antigene Australia (HBsAg) così chiamato perché isolato dal siero di un aborigeno australiano.
Tre anni più tardi, raccolti una serie di dati necessari a studi di Antropologia genetica, Blumberg osservò che tale antigene era diffuso tra gli australiani, gli asiatici e gli africani, mentre era assente negli europei e negli americani. L'antigene era poi presente in individui sofferenti di un'epatite cronica: solo nel 1966, dopo tre anni di riflessioni, Blumberg associò l'antigene all'epatite. Tale scoperta gli valse l'assegnazione del premio Nobel per la Medicina nel 1976, ex-aequo con Gajdusek che lavorò invece su altre tematiche.
Nel 1968, il virologo Alfred Prince riconobbe che l'antigene Australia (HBsAg) è parte del virus che causa l'epatite da siringa, il virus HBV; dal 1971 fu introdotto lo screening del sangue da trasfusione per ricercare tale antigene.
Nel 1973 è stato identificato l'agente causale dell'epatite A, noto come HAV, che fu trovato nelle feci (e non nel siero) da Feinstone, Kapikian, Purcell e collaboratori. La storia è raccontata QUI e QUI, mentre l'articolo originale, pietra miliare nella storia dell'epatologia, fu pubblicato su "Science".
Nel 1975 è stata riconosciuta l'esistenza di almeno un'altra forma di epatite virale "non A, non B": si scopriranno in realtà più di un virus.
Nel 1977 il professor Mario Rizzetto e i suoi collaboratori scoprirono l'agente delta ossia il virus dell'epatite D (HDV), un virus difettivo che agisce in presenza del virus dell'epatite B e può causare epatiti fulminanti.
Nel 1980 Khuroo identificò HEV. Nello stesso anno entrò in commercio il primo vaccino per l'epatite B, denominato Heptavax.
Nel 1987, basandosi sulle ricerche condotte da Harvey Alter a partire dagli anni Settanta (sua l'ipotesi del virus "non A, non B"), Houghton, Choo e altri identificarono un clone che mostrava tutte le caratteristiche per essere associato all'epatite virale "non A, non B", identificando HCV - il virus dell'epatite C.
L'annuncio della scoperta è stato dato nel 1989 in due articoli apparsi su "Science" e da allora sono fioriti gli studi intorno all'infezione da questo patogeno e alle sue conseguenze. Alter e Houghton sono stati premiati con il Nobel per la medicina nel 2020: ne ho detto QUI.
Nel 1995 Muerhoff individuò GB virus C, un flaviviridae che ha per bersaglio il fegato. Ai flaviviridae appartiene anche il virus della febbre gialla, YFV (yellow fever virus), trasmesso dalla puntura dell'Aedes Egyptii, contro il quale è bene vaccinarsi qualora si decida di recarsi in paesi tropicali.
Nel 1996 Linnen lo identificò come HGV.
La ricerca di farmaci e vaccini meriterebbe un ulteriore approfondimento che però non offro ai lettori: non essendo medico, non voglio dare informazioni che potrebbero creare illusioni o aumentare false speranze. D'altronde, mi piace condividere qualche curiosità sul cammino della Conoscenza: lasciamo ai tecnici le applicazioni. E poi il dibattito mediatico è ormai monopolizzato dal Covid: non voglio di certo rubargli la scena.
Per concludere il post, vi racconto brevemente la storia di mia nonna Marina, che vedete sopra in una (rara) foto. Negli stessi anni in cui Blumberg comprendeva la correlazione tra l'antigene Australia e l'infezione da epatite da siringa, ella si sottopose ad un intervento chirurgico per l'asportazione di una neoplasia benigna presso il vecchio ospedale - con le sue scale, i suoi corridoi e gli stanzoni gremiti di letti, tra i quali giravano suore e dottori. Erano i tempi in cui negli ospedali si facevano bollire le siringhe di vetro e si rifacevano ancora "a mano" le punte degli aghi (sic!).
Qualche tempo dopo l'operazione comparve un ittero che la costrinse al ricovero per alcune settimane. Ritornata a casa, quasi non ebbe più segni sospetti (e aggiungo: neanche altri ricoveri), finché - più di trent'anni dopo - cominciò a sentirsi male: febbre alta, dolori addominali lancinanti, vomito e altro che la costrinsero a subire d'urgenza un nuovo ricovero - questa volta in un ospedale assai più moderno (e con gli aghi monouso).
I medici sospettarono dal principio un dramma pancreatico; dopo gli esami, diagnosticarono l'epatite da virus C. Da allora è vissuta un altro quarto di secolo, alternando ampi archi temporali di relativo benessere a "baraccate" (come amava definire lei stessa i suoi periodi di malessere) che si facevano sentire soprattutto nei cambi di stagione.
L'ultima "baraccata" le è stata fatale: cominciata all'inizio dello scorso ottobre (negli stessi giorni in cui veniva annunciato il Nobel per la scoperta del famigerato virus), ne ha segnato il progressivo declino, conclusosi il 2 dicembre scorso.