Confesso che quando toccò a me sostenere l'esame di stato (quello che chiamiamo volgarmente maturità) da studente non ero affatto in ansia. Anzi, ero particolarmente speranzoso: qualsiasi cosa fosse successa, ero sicuro che un percorso triste e demolitivo come quello da me vissuto al liceo avrebbe avuto certamente termine e finalmente avrei potuto guardare alla vita con uno spiraglio di progettualità e di serenità.
Avevo fatto di tutto per giungere alla conclusione e questa arrivò, anche con una certa effimera soddisfazione; mi ero sbagliato sul fatto della progettualità, visto che altri avevano fatto progetti per me e io avrei dovuto annichilire i miei per realizzare i loro.
In realtà, nei giorni successivi alla conclusione dell'esame di stato, ero un po' indeciso sul da farsi per l'autunno seguente: filosofia? Lingue semitiche? Farmacia?
Scartata l'ultima, vista la repulsione per le scienze che avevo accumulato tra i banchi di scuola (salvo dovermi ricredere poi grazie a un illuminatissimo sacerdote cui va tutta la mia eterna gratitudine), scelsi di dar corso al primo filone di studi: qualcuno - che non sa mai farsi i fatti propri - frullò la testa a mio padre in merito al fatto che potevo studiare a casa da non frequentante ed andare in sede solo per dare gli esami.
Studiare da casa significava avere tempo libero; e tempo libero significava a sua volta essere manovalanza a disposizione dell'associazione di cui lui è tuttora dirigente e io sono ex socio non più iscritto da diversi anni, con tanto di richiesta di cancellazione dei dati dagli archivi.
In fin dei conti avevo scelto filosofia, non mi ero iscritto a ingegneria, non avevo corrisposto al suo sogno di vedermi impiegato all'Enel: e allora potevo stare in ufficio dalle 7:55 alle 20:30 a inserire dati dei tesseramenti al pc, che mi piacesse o no. E così fu.
Mi salvò da quei lavori forzati il servizio civile, al termine del quale decisi di studiare teologia, con profondo disprezzo da parte dei miei familiari che mi hanno fatto pesare tutta la loro disapprovazione. Speravano che la smettessi con i libri e pensassi a mettere su famiglia. Hanno ottenuto l'esatto contrario: con i libri continuo tuttora e di mettere su famiglia ho smesso di pensarci da tempo.
Intanto ampliai i miei interessi con collaborazioni giornalistiche e altre attività a sfondo musicale; completai gli studi di teologia, feci le prime esperienze di insegnamento e capii che il mondo religioso e soprattutto la sua quasi esclusiva dimensione parrocchiale ad esso connessa non facevano per me.
Decisi di riconsiderare l'idea di studiare farmacia: ma quel qualcuno - che non sa mai farsi i fatti propri - frullò nuovamente la testa a mio padre in merito al fatto che non essendo figlio di titolare di farmacia non conveniva che mi impegnassi in quegli studi. Soldi buttati.
Era meglio chimica, visto che di matrimonio proprio non volevo (e non voglio) sentir parlare. Venezia poi era più comoda di Padova e così mi iscrissi là. Portai avanti gli studi dignitosamente, con una media relativamente alta: per me, o le cose si fanno bene o non si fanno.
Qualche idiota ebbe a dire che a trent'anni era meglio che andassi a lavorare. Gli tolsi il saluto. E finii il mio percorso, trovando sempre il modo di guadagnarmi onestamente il denaro per finanziare i miei progetti. Anche tornando ad insegnare; e ad insegnare alla fine sono felicemente rimasto.
Le proposte di lavoro alternative che pur ricevetti (una dozzina in tutto) come neolaureato in chimica prevedevano di spostarmi in altre regioni per il lauto primo stipendio di 800 euro lordi mensili con mansioni di analista o di capoturno nella messa in opera di materie plastiche. Anche no, grazie.
Mi sarebbe piaciuto conseguire un dottorato di ricerca, giusto per soddisfazione personale, senza ambizioni di carriera accademica: mi fu risposto - senza mezzi termini - che puzzavo troppo da prete. Sulle prime ci sono rimasto male, poi ho concluso che da certi poveracci trasformati in accademici dalla magica bacchetta del solito vecchio partito non potessi aspettare tanto di meglio. E meglio forse è stato per me.
In cuor mio però ho realizzato che avrei voluto davvero tentare anche il conseguimento della laurea in farmacia: e contattai gli atenei più vicini ove quel cdl è attivato. La risposta più stupida che ottenni me l'ha scritta una docente, la quale mi disse che a trentacinque anni dovevo pensare al matrimonio e alla famiglia. Mi sono stupito del fatto che questi scampoli di bigotteria infestino pure il mondo accademico e convivano con i clown dalla rossa parrucca di cui sopra.
Era ora di dire basta a sogni e progetti: e mi sono ritirato nella quieta mediocrità del paesello natio, dal quale speravo di andarmene e nel quale mi sono amaramente rassegnato a restare senza aver realizzato nulla di quel che desideravo io e ancora meno di quanto desiderassero gli altri per la mia esistenza. Ho convintamente smesso di credere la famiglia, la comunità, la patria e tante altre quisquilie da molto tempo. Ho ancora delle riserve su Dio.
Insegnare mi diverte e mi appaga, almeno moralmente: lo concepisco come un servizio essenziale e sono felice perché svolgendolo posso continuare a studiare prima di tutto per me e poi anche per gli altri. Forse è la cosa che mi si addice di più. Sono felice soprattutto perché non mi occupo più di sola chimica (anzi, di questa in verità mi occupo assai poco), ma ho allargato i miei orizzonti e i miei interessi, dopo aver abbandonato per sempre musica, religione e altre cose, anche grazie a preziose collaborazioni, come quella con il professor Barbazza e con l'Università degli Adulti - Anziani di Belluno. Qualcosa di tutto ciò l'ho raccontato tra le pagine di Incoscienze naturali, il libro che trovate linkato a fianco e che ho presentato nel seguente video.
Insegnare mi ha permesso finora di riscoprire delle belle emozioni, come quell'ansia da esame che non ho provato ai tempi della mia maturità e che vivo invece adesso da docente accompagnando i miei alunni ad un momento importante per la loro vita: proprio a loro auguro di avere più fortuna di me nel prosieguo e di incontrare persone che sappiano davvero indicare a ciascuno la strada, anche se dura e in salita - e non, come è capitato allo scrivente, la sfilata dei cretini che la strada me l'hanno fatta franare sotto i piedi.
Nonostante i vari tentativi di asfaltarmi, io sono come la pianta della fotografia soprastante: rinasco sempre tra le crepe del bitume. Ho così imparato che la forza della vita ha qualche volta il sapore di un autentico miracolo (e io non credo tanto nemmeno ai miracoli): a insegnarmelo è stata l'esperienza, la docente più esigente di tutte, quella che - come ricordava Oscar Wilde - prima ti boccia all'esame e poi ti spiega la lezione.
Bella la tua "ansia da esame" Marco, e anche la tua forza di non lasciarti asfaltare! Però, non dire "basta a sogni e progetti" anche perchè sei giovane e la vita è ricca di sorprese!
RispondiEliminaMai letto un commento così profondo, vero e toccante. Non ci sono parole per esprimere le emozioni. Giacomo.
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