mercoledì 20 ottobre 2021

Magni e Cavalli Sforza

Ecco una biografia di Luigi Luca Cavalli Sforza (1922-2018), pubblicata in: Ghislieri 450 - Un laboratorio di intelligenze, Einaudi (2017), pp. 120-125.
di Federico Focher
[...] Giovanni Magni, di Como, e Luca Cavalli-Sforza, di Genova, furono compagni d’anno di Medicina: il primo entrò in Collegio nel 1938; il secondo nel 1939, dopo un anno all’Università di Torino, grazie al conseguimento di un posto Castiglioni, al quale potevano concorrere anche studenti non lombardi. 

Così ricorda Cavalli quel magico periodo nella sua autobiografia (Perché la scienza? L’avventura di un ricercatore): 
In Ghislieri passai uno dei periodi più belli della mia vita e vi conobbi alcuni dei miei amici migliori. Con uno di questi, Giovanni Magni, che era del mio stesso anno di medicina, iniziai ben presto a progettare ricerche. Seguendo la consuetudine ghisleriana, entrammo come allievi interni all’Istituto di Anatomia comparata, da cui erano usciti ottimi scienziati, come il farmacologo Vittorio Erspamer e l’entomologo Mario Pavan”.

Magni e Cavalli condivideranno dunque passione, studi e ricerche nell’ambiente accademico pavese, falcidiato nel corpo docente dalle leggi razziali. 

Durante le vacanze estive frequenteranno insieme il Laboratorio Medico Micrografico di Como (diretto dal ghisleriano Luigi Bonezzi) e, su consiglio di Emilio Veratti, eminente professore di Patologia generale dell’ateneo pavese, nel 1942, proprio in pieno conflitto mondiale, trascorreranno un breve periodo di ricerche in Germania, prima a Francoforte sul Meno e poi a Berlino, nel laboratorio di genetica della drosofila, diretto dal celebre e carismatico Wladimirovic Timofeeff-Ressovsky.

Fondamentale fu per entrambi l’incontro con Adriano Buzzati-Traverso, fratello del celebre scrittore Dino Buzzati. La prima volta che i due amici ne sentirono parlare fu nello studio di Emilio Veratti. 

Buzzati, tornato dall’America, prima di partire per la guerra di Libia aveva consegnato a Veratti una copia del volume dei riassunti delle comunicazioni scientifiche del primo convegno di Genetica dei microrganismi tenutosi negli Stati Uniti, affinché lo facesse leggere a qualche studente particolarmente interessato. 

Il professore lo consegnò a Magni e a Cavalli che lessero e tradussero con passione tutti i riassunti delle presentazioni scientifiche in esso contenuti. Si può proprio affermare che galeotto fu il libro, in quanto entrambi avvertirono in quelle pagine l’irresistibile richiamo per la ricerca in campo genetico. Da quel momento in poi Magni si concentrerà sui lieviti, mentre Cavalli si focalizzerà sui batteri.

Nel settembre 1943 il Collegio venne occupato dai tedeschi e i due amici lo lasceranno per incamminarsi poco alla volta su strade diverse: dopo la laurea, Magni andò a Como, presso il Laboratorio di Igiene e Profilassi (diretto dal giovane microbiologo Rodolfo Negri, su espresso volere dell’allora direttore dell’Istituto Superiore di Sanità, Domenico Marotta), mentre Cavalli seguì Buzzati a Pallanza, cittadina nella quale, onde evitare danni causati da possibili bombardamenti alleati, era stato trasferito il laboratorio di genetica, ospitato a Pavia nell’Istituto di zoologia di Carlo Jucci, allievo del ghisleriano Giovanni Battista Grassi.

Magni iniziò quindi la sua carriera scientifica lavorando dapprima nell’Istituto del micologo Piero Redaelli, anatomo patologo di Milano, e in seguito a Copenaghen presso il laboratorio del genetista Oivid Winge, considerato all’epoca lo scienziato più esperto della genetica dei lieviti. 

Al suo ritorno Magni divenne assistente di Buzzati (in cattedra dal 1948) a Pavia; vinse quindi la cattedra di genetica a Parma (1963), per poi trasferirsi a Milano nel 1968, dove continuò a lavorare sulla genetica dei lieviti.

Studiò anche la genetica della drosofila scoprendo un’infezione virale responsabile di una deviazione del rapporto sessi che poteva portare alla completa scomparsa dei maschi. Tuttavia, il suo contributo scientifico più importante fu sicuramente la scoperta di chiare differenze del processo di mutazione durante la divisione cellulare normale, la mitosi, e quella che accompagna la produzione di spermatozoo e cellule uovo (meiosi). Svolse anche ricerca applicativa in campo farmaceutico contribuendo in prima persona allo sviluppo di nuovi efficaci antibiotici.

L’amico Cavalli, invece, dopo una breve esperienza come medico, divenne ricercatore presso l’Istituto sieroterapico milanese “Serafino Belfanti”. Animato dal fuoco della ricerca, si rese presto conto dell’importanza della matematica e soprattutto della statistica negli studi genetici, e iniziò lo studio di entrambe. 

Nata per raccogliere dati importanti per i governi (da cui il nome), la statistica verrà applicata ai fenomeni biologici solo a partire dagli inizi del XX secolo, quando un geniale matematico, Ronald A. Fisher, riuscirà a sviluppare metodi che permettono di aumentare sensibilmente la capacità di interpretazione di risultati scientifici basati su pochi dati sperimentali.

Finalmente, nel 1948, Cavalli riuscì ad ottenere una borsa di studio per poter svolgere ricerche a Cambridge, presso la John Innes Horticultural Institution con Kenneth Mather (allievo di Fisher), al fine di studiare i caratteri poligenici. In quell’anno, ad un congresso a Stoccolma, Cavalli incontrò il celebre Fisher che, con sua grande sorpresa, lo invitò nel proprio laboratorio per studiare la ricombinazione batterica, un fenomeno descritto in quegli anni da Joshua Lederberg a Madison (Wisconsin). Queste ricerche lo porteranno a descrivere la sessualità infettiva e alcuni ceppi batterici capaci di ricombinare ad alta frequenza (Hfr). 

La comunicazione di questi dati ai colleghi Joshua Lederberg e sua moglie Esther segnò l'inizio di una proficua collaborazione scientifica, che si approfondirà nel 1954, quando Cavalli, grazie ad un finanziamento della Rockefeller Foundation, potè trasferirsi per un certo periodo nel laboratorio dei Lederberg, a Madison, come visiting scientist. 

Sarà proprio durante questo soggiorno americano che Cavalli scoprirà l’importanza della deriva genetica (genetic drift), ovverosia della componente puramente casuale nella variabilità di una specie. Indubbiamente la selezione naturale ha reso e rende possibile la vita, ma Cavalli intuì che la sua influenza nell’evoluzione è spesso inferiore a quella della onnipresente deriva genetica, ovverosia della pura casualità, per cui si può paradossalmente affermare che in natura si ha più spesso la “sopravvivenza del più fortunato” che non la “sopravvivenza del più adatto”.

Conscio del fatto che studiare la deriva genetica avrebbe dischiuso un campo nuovo, ancora largamente inesplorato, Cavalli decise di proporre alla Rockefeller Foundation lo studio del ruolo della deriva genetica nella configurazione genotipica della popolazione della val di Parma. 

Dopo molti anni, nel 2004 pubblicherà i suoi dati, in collaborazione con Gianna Zei e Antonio Moroni, nel volume Consanguinity, Imbreeding and Genetic Drift in Italy. L’analisi genetica delle genti della val di Parma, che permise di dimostrare il grande ruolo giocato dalla deriva genetica nell’evoluzione, fu il banco di prova di successive brillanti ricerche multidisciplinari che lo porteranno a definire i tempi e i modi sia della rivoluzione neolitica in Europa avvenuta 10.000 anni fa, sia della diffusione nel mondo di Homo sapiens a partire, circa 100.000 anni fa, da una piccola popolazione evolutasi nell’Africa subsahariana.

Il fenomeno affrontato da Cavalli in questi studi è la migrazione umana e la relativa diffusione della cultura: avviene quest’ultima in seguito alla migrazione dei popoli o è il risultato della semplice trasmissione di idee e informazioni tra popolazioni di fatto stanziali? È noto che la rivoluzione neolitica è indissolubilmente legata alla nascita e alla diffusione dell’agricoltura; diventava quindi assai interessante domandarsi se poteva esistere una relazione tra diffusione dell’agricoltura dal Medio Oriente all’Europa e il gradiente di alcuni geni nelle popolazioni di tali regioni. Se la risposta fosse risultata positiva si sarebbe potuto affermare di aver dimostrato che la cultura neolitica si era diffusa per migrazione di uomini, per la cosiddetta diffusione demica, e non, o non solo, attraverso semplici scambi culturali.

Verso la fine degli anni Sessanta, stanco delle incombenze burocratiche che lo gravavano in qualità di direttore dell’Istituto di Genetica di Pavia (vinse la cattedra di genetica a Pavia nel 1962) e del Laboratorio del CNR, Cavalli decise di accettare la proposta di Lederberg di trasferirsi in California. Nel 1971 iniziò così a insegnare stabilmente all’Università di Stanford, luogo in cui svolgerà la maggior parte dei suoi studi sulla genetica delle popolazioni umane.

In quegli anni la genetica delle popolazioni europee e mediorientali era in gran parte sconosciuta, ma da quel poco che si sapeva, sembrava esserci, almeno per alcuni geni, una sorta di variazione continua dal Medio Oriente verso l’Europa, il che faceva supporre l’esistenza di qualcosa di simile a una diffusione demica. Così, nel 1977, prendendo spunto da tali deboli indicazioni, Cavalli intraprese un’analisi genetica dettagliata delle popolazioni mediorientali ed europee avvalendosi della collaborazione di altri due italiani, Paolo Menozzi, dell’Università di Parma, e Alberto Piazza, dell’Università di Torino.

Diversi anni dopo l’inizio dei suoi studi sui dati archeologici, che avevano permesso di datare con notevole precisione i vari momenti della diffusione dell’agricoltura in Europa, Cavalli, poté dimostrare attraverso mappe genetiche (basate sulla variazione delle frequenze geniche) l’esistenza di un gradiente, con un picco in Medio Oriente, che via via sfumava verso tutta l’Europa in cerchi quasi concentrici, un po’ più rapidamente verso il Mediterraneo, un po’ meno rapidamente verso nord. Questi risultati dimostrarono dunque l’esistenza di una diffusione demica e non, o non solo, culturale.

La possibilità di ricostruire la storia della mutazioni nelle linee genealogiche dischiuse immediatamente nuovi campi di indagine, poiché da quel momento diventava realizzabile la mappatura cronologica, sulla carta geografica, delle varie migrazioni umane (modello standard dell’evoluzione umana). Infatti, se si fosse riuscito a determinare il luogo e il momento in cui era avvenuta una data mutazione, sarebbe stato possibile ripercorrere le varie fasi dell’espansione dell’uomo moderno dal suo punto d’origine. 

Per quanto riguarda la diffusione di H. sapiens nel mondo, il modello di Cavalli dimostra, allo stato attuale delle conoscenze, che prima di 100.000 anni fa esisteva in Africa orientale una popolazione umana molto simile a noi, formata al più da qualche migliaio di individui, capaci di un linguaggio come il nostro. Da questo centro, per qualche motivo ancora non del tutto compreso, tale popolazione umana si diffuse molto lentamente verso sud e verso nord. Ad un certo punto la glaciazione bloccò la sua espansione e l’uomo di Neanderthal, già presente in Europa e meglio adattato al freddo, rioccupò parte dei territori che gli erano stati precedentemente sottratti da H. sapiens nella sua espansione verso nord. 

Circa 50.000 anni fa la popolazione dell’uomo moderno riprese a crescere e ci fu una nuova migrazione, sempre dall’Africa, in tutto il mondo, passando prima per il Medio Oriente, per poi diffondersi in Asia attraverso la penisola araba, in Europa attraverso l’Anatolia e l’Ucraina, in America attraverso lo stretto di Bering e in Oceania attraverso le isole della Sonda.

Nel 1994, dopo sedici anni di lavoro, Cavalli, esprimendo al meglio il caratteristico spirito eclettico e multidisciplinare del ghisleriano, pubblica questi risultati in un’opera monumentale, Storia e geografia dei geni umani, nella quale, sulla base dei dati genetici disponibili all’epoca, dimostra una stretta correlazione tra geni e lingue e tra geni e reperti archeologici, corroborando la celebre classificazione delle lingue di Merritt Ruhlen (1975). 

Con Storia e geografia dei geni umani Luca Cavalli Sforza, facendo propri tutti gli strumenti forniti dalle più diverse discipline utili a fare luce sull’evoluzione umana - genetica, antropologia, demografia, statistica, archeologia, linguistica e altre ancora - fornisce al lettore la chiave per comprendere non solo lo stretto rapporto fra patrimonio genetico e la storia delle civiltà, ma anche la vacuità dell’idea di razza, quando tale concetto viene applicato all’uomo. Infatti, i complessi legami genetici che intercorrono tra gli uomini dei vari continenti dimostrano, nonostante l’ampia variabilità genetica, l’inesistenza di corredi genetici specifici correlabili a particolari gruppi razziali. 

Da qui il caloroso e appassionato messaggio che Cavalli lancia al lettore: la diversità, come la biodiversità nel mondo vegetale e animale, non è un intralcio o un pericolo per l’umanità, ma una risorsa inestimabile. La stessa risorsa che ha garantito la sopravvivenza di Homo sapiens dalla sua prima uscita dalle savane dell’Africa.

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