giovedì 24 maggio 2018

NEL CUORE DELL'EMOGLOBINA

Riflettevo - con stupore, ammirazione e non senza un pizzico di preoccupazione - sul fatto che il mio cuore, da quando si è formato a oggi, ha pulsato all'incirca un miliardo e mezzo di volte

Calcolate quanti minuti ci sono in un giorno, moltiplicate per il numero di giorni in un anno e moltiplicate ancora per il numero di anni vissuti: a questi sommate pure i mesi di permanenza nella pancia della mamma, tenendo conto che il battito cardiaco del nascituro è percepibile dalla sesta settimana. 

Per fare i conti giusti bisognerebbe tener conto che la frequenza cardiaca è molto maggiore da piccoli e poi diminuisce con l'avanzare dell'età, per stazionare tra i 60 e gli 80 battiti al minuto di un adulto sano.

Che il cuore sia una doppia pompa, inserita in un doppio circuito chiuso, è cosa nota a tutti (o quasi), oggi: la descrizione moderna della circolazione del sangue si deve all'inglese William Harvey, che studiò medicina all'università di Padova alla fine del XVI secolo, negli anni in cui vi insegnavano Galileo Galilei, Fabrizio d'Acquapendente (che descrisse le valvole delle vene) e anche il medico bellunese Eustacchio di Rudio.


Il liquido circolante in questo doppio circuito idraulico è il sangue: rosso vivo nelle arterie che partono dal cuore per raggiungere il corpo, rosso più scuro nelle vene che dal corpo ritornano al cuore per poi raggiungere i polmoni.

Il sangue era uno dei quattro umori di Ippocrate di Cos (insieme a bile gialla, bile nera e flemma); per Galeno di Pergamo, esso scaturiva dal fegato a partire dalle sostanze nutritive per poi diffondersi nel corpo attraverso il cuore e infine scomparire nei muscoli.

Harvey, dopo aver fatto due conti, realizzò che ciò era numericamente impossibile e non poteva essere che lo stesso sangue a circolare dentro vene e arterie, spinto dalle contrazioni del cuore. Nel 1628 pubblicò la sua celebre "Exercitatio anatomica de motu cordis ac sanguinis in animalibus".

Il colore rosso del sangue interesserà quasi due secoli dopo un giovane laureando dell'Università di Gottinga, J.F. Engelhard, autore di una tesi redatta in latino, dal titolo: "Commentatio de vera materia sanguini purpureum colorem impertientis natura", discussa nel 1825.

Ricercando la natura di quella sostanza che impartisce al sangue il colore rosso, Engelhard trovò una proteina contenente all'incirca lo 0.5% di ferro e scoprì che il rapporto tra ferro e parte proteica è pressoché identico in molte specie animali.
Dalla massa atomica del ferro, nota ai chimici del tempo, calcolò la massa molecolare di questa proteina "ferrata" con la relazione empirica: n x 16.000 (ove n è il numero di atomi di ferro per ciascuna molecola proteica, che oggi sappiamo essere n = 4). Fu questa la prima determinazione della massa molecolare di una proteina. Questa conclusione frettolosa richiamò il biasimo da parte di scienziati che, agli inizi del XIX secolo, non potevano credere all'esistenza di molecole così grandi. Rose confermò tuttavia i risultati dei lavori sperimentali di Engelhard e questo tenne vivo l'interesse per questi studi, che riecheggiarono anche in Italia, sulla rivista "Biblioteca italiana o sia giornale di letteratura, scienze et arti" (volume 53, pagg. 215-216).

Anche Claude Bernard si interessò di questa proteina contenente ferro e ne chiarì il ruolo: nel frattempo, F. L. Hunefeld scoprì nel sangue una forma di questa proteina che, oltre al ferro, conteneva anche ossigeno. Descrisse i suoi lavori in "Die chemismus in der thierischen organization" (1840).

Nel 1851 il fisiologo tedesco Otto Funke pubblicò una serie di articoli in cui descrisse la crescita di cristalli di questa proteina, prima diluendo i globuli rossi con solventi opportuni (acqua pura, alcool o etere) e poi facendolo evaporare lentamente dalla risultante soluzione proteica.

Nel 1866 Felix Hoppe-Seyler pubblicò "Uber die oxydation in lebendem blute" (Med-chem Untersuch Lab. 1:133-140), in cui descrisse l'ossigenazione reversibile della proteina contenente ferro.


Ormai il lettore avrà compreso che questa proteina contenente ferro che si lega in modo reversibile all'ossigeno è l'emoglobina, il cui nome deriva dalle parole eme e globina, le quali rispecchiano il fatto che ciascuna delle quattro subunità di questa molecola è una proteina globulare con un gruppo eme incorporato. Ciascun gruppo eme contiene un atomo di ferro, che può legare una molecola di ossigeno biatomico.

Giacomo Ciamician, professore a Bologna, osservò che per ossidazione dell'eme era possibile ottenere un miscuglio di emopirroli; analogamente, ossidando le clorofille, si ottenevano miscugli di fillopirroli. Scrisse in merito (Rivista di scienza, vol. 1, 1907, Problemi di Chimica Organica):


Richard Willstatter, premio Nobel per la Chimica nel 1915, evidenziò l'analogia strutturale tra l'anello porfirinico della clorofilla e quello dell'eme, rilevando che nella prima c'è il magnesio laddove nella seconda c'è un atomo di ferro.

Nel 1925, Gilbert Smithson Adair riprese il problema della massa molare dell'emoglobina e confermò i risultati di Engelhard misurando la pressione osmotica delle sue soluzioni e pubblicando i suoi risultati in "A critical study of the direct method of measuring the osmotic pressure of haemoglobin" (Proc. R. Soc. Lond. A 108 (750): 292-300).

Nel 1959, Max Perutz, un chimico che lavorava a problemi di biologia in un laboratorio di fisica a Cambridge (così amava definirsi), determinò la struttura molecolare dell'emoglobina mediante cristallografia ai raggi X e pubblicò i risultati su Nature nel 1960. Questo lavoro lo ha portato a ottenere, con John Kendrew, il Premio Nobel per la Chimica nel 1962, assegnatogli per gli studi sulle strutture tridimensionali delle proteine globulari.


La risposta alla domanda: "perché il sangue è rosso?" ingloba anche la risposta ad altre due domande, concernenti il colore delle feci e quello dell'urina. Il colore di questi escreti è dovuto a molecole che derivano dalla degradazione dell'eme. Quando i globuli rossi sono distrutti dalla milza e dal fegato, dopo circa 120 giorni, il ferro è recuperato mentre la struttura porfirinica è successivamente ossidata a pigmenti biliari (biliverdina, bilirubina), riversati con la bile nell'intestino, e quindi trasformati, attraverso vari passaggi, in stercobilina e infine in urobilina.


lunedì 21 maggio 2018

SCATTI DA OLIERO

Ho avuto modo di visitare recentemente le Grotte di Oliero nella Valbrenta, a nord di Bassano del Grappa (VI), come testimonia la foto seguente - per la quale ringrazio l'amico Daniele, che ha esaltato le mie sembianze da vero uomo delle caverne.


Alla grotta siamo giunti da Campolongo sul Brenta, dopo un breve percorso a piedi, lungo la ciclabile che costeggia il fiume.


Il percorso mi ha permesso di apprezzare la fauna locale...


... e anche la flora, con i papaveri in fiore.


Il tragitto per arrivare alla grotta è tranquillo e la giornata non troppo calda mi ha permesso di godere la camminata.


Nella grotta si entra, opportunamente muniti di caschetto e salvagente, per mezzo di un'imbarcazione condotta dalle guide locali che spiegano le particolarità geologiche e faunistiche.


L'acqua, che infiltra dall'altopiano dei Sette Comuni, è limpida e freddissima (2-3°C) e nei punti più fondi, esplorati dagli speleologi subacquei, giunge fino a quindici metri di profondità.


Dentro è possibile ammirare le formazioni calcaree, come questa:


... oppure questa:


... o, ancora, questa:


Come ci disse la guida, nelle grotte di Oliero è sempre notte (la luce non vi giunge) e la temperatura è costante (circa 12°C). In esse vive il proteo, un anfibio di "importazione": proviene infatti dalle grotte di Postumia, ma alcuni esemplari portati in quel contesto hanno potuto inserirsi e dimorare. Non ho avuto la fortuna di avvistarlo; in compenso ho ammirato gli esemplari dell'axolotl, un anfibio simile al proteo, allevati negli acquari del museo di speleologia allestito nello stabile antistante alla grotta - un tempo cartiera, oggi centro visitatori. Lo vedete alla fine di questo breve filmato che ho girato e montato alla meno peggio, con l'inizio del concerto per arpa di Karl Ditters von Dittersdorf come colonna sonora.




giovedì 17 maggio 2018

UN SALTO AL MUSME

Merita davvero il prendersi mezza giornata per fare un salto a Padova al fine di visitare il MUSME (Museo di Storia della Medicina), realizzato presso l'edificio che un tempo ospitava l'antico ospedale in via San Francesco, a un passo dall'Orto Botanico (il più antico al mondo) e dal Palazzo del Bo, sede storica dell'università - prossima a compiere otto secoli di storia.

In una serie di sale sono raccontati i progressi compiuti nelle discipline (intorno al corpo umano) che hanno portato alla moderna medicina: 
  • anatomia (come è fatto)
  • fisiologia (come funziona)
  • patologia (come si ammala)
  • terapia (come si cura)
A tali progressi hanno dato notevoli contributi medici e scienziati che a Padova si sono formati e/o hanno insegnato l'arte medica nel corso dei secoli: da Vesalio ad Harvey, da Wirsung a Morgagni, etc.

Nelle teche sono esposti campioni, modelli, calchi e quanto serviva per le lezioni:





Altre sale conservano strumenti - datati e moderni - usati nello studio della fisiologia, nella diagnostica e nella terapia: tra questi, un vecchio "polmone d'acciaio" adoperato nel trattamento dei bambini (non vaccinati) colpiti da poliomielite.


Qua e là sono esposte copie a stampa degli antichi testi che hanno segnato il progresso dell'Arte medica - mi ha particolarmente colpito quello del Morgagni, il medico forlivese che nel XVIII secolo esercitava nell'ospedale di San Francesco a Padova, la cui opera ha segnato la nascita dell'anatomia patologica.


Notevole è la lastra in rame con il primo disegno del dotto pancreatico, osservato e descritto per la prima volta da Wirsung, a Padova, nel 1642.


Oltre a questi materiali, la fa da padrona la multimedialità: in una serie di schermi è possibile visualizzare spiegazioni, interagire con i personaggi del passato e mettersi alla prova per un'auto verifica delle informazioni acquisite (senza voto!). 

Purtroppo non sono riuscito a visitare la mostra tematica dedicata all'arte ostetricia: un buon motivo per tornare presto a completare il giro.



venerdì 11 maggio 2018

IL POLISTIRENE DI QUENEAU

Riallacciandomi al post precedente, con l'ammiccamento al documentario di Olmi sulla nascita del petrolchimico di Priolo, presento qui un testo che ho già citato tempo addietro e sul quale ho tenuto la lezione conclusiva del mio corso all'UAA nell'AA 2016-2017. "La canzone del polistirene" fu composta da Queneau per un altro documentario, di Alain Resnais, sulla sintesi dell'importante materia plastica. L'originale, in francese (il cui titolo risuona quasi come un irriverente omaggio al "Canto delle sirene"), è stato tradotto da Italo Calvino con la consulenza di Primo Levi per i tipi della Montedison: fu l'ultimo lavoro di Calvino. 



"Tempo, ferma la forma! Canta il tuo carme, plastica!
Chi sei? Di te rivelami Lari, penati, fasti!

Di che sei fatta? Spiegami le rare tue virtù!
Dal prodotto finito risaliamo su su
Ai primordi remoti, rivivendo in un lampo
Le tue gesta gloriose! In principio, lo stampo.
Vi sta racchiusa l'anima; del lor grembo in balìa
Nascerà il recipiente, o altro oggetto che sia.


Ma lo stampo a sua volta lo racchiude una pressa
Da cui viene la pasta iniettata e compressa,
Metodo che su ogn'altro ha il vantaggio innegabile
Di produrre l'oggetto finito e commerciabile.
Lo stampo costa caro; questo è un inconveniente,
Ma lo si può affittare, anche da un concorrente.

Altro sistema in uso permette di formare
Oggetti sotto vuoto, per cui basta aspirare.
Già prima il materiale, tiepido, pronto all'uso
Viene compresso contro una filiera: "estruso",
Ossia spinto all'ugello per forza di pistone;
Lo scalderà il cilindro al punto di fusione.
E' lì che fa il suo ingresso nel bollente crogiolo
Il rapido, il vivace, il bel polistirolo.


Lo sciame granuloso sul setaccio si spinge,
Formicola felice del color che lo tinge.
Prima di farsi granulo, somigliava a un vibrante
Spaghetto variopinto: chiaro, scuro, cangiante.
Una filiera trae, dall'estruso finito,
Gli spaghi che una vite senza fine aggomitola.


E l'agglutinazione come si fa ad averla?
Con perle variopinte: un colore ogni perla.
Ma colorate come? Diventerà uno solo
Il pigmento omogeneo dentro il polistirolo.
Prima certo bisogna asciugarlo per bene
il rotante prodotto, dico il polistirene,
il nostro neonato, il giovane polimero
Del semplice stirene, ma nient'affatto effimero.


"Polimerizzazione" designa, già lo sai,
il modo d'ottenere più elevati che mai
Pesi molecolari; non hai che far girare
Un reattore idoneo: mi sembra elementare.


Come perle in collana, legate l'una in cima
All'altra, tu incateni le molecole...E prima?
Lo stirene non era che un liquido incolore
Coi suoi scatti esplosivi e un sensibile odore
Osservatelo bene: non perdete le rare
Occasioni che s'offrono di vedere e imparare.
E' dall'etilbenzene, se lo surriscaldate
Che stirene otterrete, anche in più tonnellate.
Lo si estraeva un tempo dal benzoino, strano
Figlio dello storace, arbuso indonesiano.


Così, di arte in arte, pian piano si risale
Dai canali dell'arido deserto inospitale
Verso i prodotti primi, la materia assoluta
Che scorreva infinita, segreta, sconosciuta.
Lavando e distillando quella materia prima,
-Esercizi di stile meglio in prosa che in rima-
L'etilibenzene scoppia per sua virtù esplosiva
Se la temperatura a un certo grado arriva.
L'etilibenzene il quale, com'è noto, proviene
Dall'incontro d'un liquido che sarebbe il benzene
Mischiato all'etilene che è un semplice vapore.


Etilene e benzene hanno per genitore
O carbone o petrolio oppure entrambi insieme.
Per fare l'uno e l'altro, l'altro e l'uno van bene.
Potremmo ripartire su questa nuova pista
Cercando come e quando l'uno e l'altro esistano.
Dimmi, petrolio, è vero che provieni dai pesci?
E' da buie foreste, carbone, che tu esci?
E' il plancton la matrice dei nostri idrocarburi?
Questioni controverse...Natali arcani e oscuri...


Comunque è sempre in fumo che la storia finisce.
Finchè non viene il chimico, ci pensa su e capisce
Il metodo per rendere solide e malleabili
Le nubi e farne oggetti resistenti e lavabili.
In materiali nuovi quegli oscuri residui
Eccoli trasformati. Non v'è chi non li invidii
Tra le ignote risorse che attendono un destino
Di riciclaggio, impiego e prezzo di listino.

martedì 8 maggio 2018

RICORDANDO OLMI...


Questo breve documentario accenna alla nascita dello stabilimento chimico di Priolo, in Sicilia: la regia è di un giovanissimo Ermanno Olmi (1931-2018). 


Non si tratta di un lavoro isolato (altri documentari simili raccontano l'attività della Edison tra le montagne della Lombardia): ma già emerge la sensibilità del Maestro per le tradizioni e la vita contadina (cantata nel monumentale film della maturità "L'albero degli zoccoli") nell'attenzione per la campagna, nei dettagli dei mestieri tradizionali, nella corsa del carretto in mezzo agli impianti dove petrolio, sali e zolfo sono trasformati in acido solforico, ammoniaca, fertilizzanti, prodotti petrolchimici in decine di migliaia di tonnellate (informazioni liberamente tratte dal commento).


Sicilia: terra antica, realtà nuova. Così almeno era l'auspicio. Certo, la realtà dei fatti, oggi, non ha conosciuto il finale trionfante che il regista (o la committenza?) ha voluto per il suo film giovanile.


NOTA: le immagini sono fotogrammi da me estratti dal film e non rielaborati.

lunedì 7 maggio 2018

LA SCOPERTA DELL'ADRENALINA

"La costanza di un ambiente interno è la condizione necessaria per una vita libera e indipendente": questo asserto, del celebre fisiologo francese Claude Bernard (1813-1878), presuppone che a ogni variazione di un ambiente esterno corrisponda una compensazione dell'ambiente interno dell'organismo. 

Alla nozione di "ambiente interno" consegue quindi quella di "regolazione", anche se a metà Ottocento era un po' difficile capire compiutamente come potesse avvenire. 

A Bernard si deve anche la nozione di "secrezione interna", introdotta a proposito del ruolo del fegato nella sintesi del glicogeno e, da questo, del glucosio riversato nel circolo sanguigno. Ne avevo accennato QUI.

Nel 1855, egli scrisse che "vi sono secrezioni interne il cui prodotto, invece di essere riversato all'esterno, viene trasmesso direttamente al sangue. [...] il fegato ha due funzioni relative alla secrezione: secrezione esterna che produce la bile, che scorre al di fuori; secrezione interna che forma lo zucchero che entra immediatamente nel sangue in circolazione".

Nello stesso anno, l'anatomopatologo inglese Thomas Addison (1793-1860) descrisse la malattia che porta il suo nome e che interessa le ghiandole surrenali: cominciò a intensificarsi l'interesse per lo studio di queste ghiandole, senza dotti, e delle loro funzioni.

Charles Brown-Sequard (1817-1894) constatò che l'ablazione delle surrenali in un animale da esperimento (cane) è seguita da rapida morte, che egli attribuì alla mancanza di imprecisate secrezioni interne.

Nel 1856, Alfred Vulpian (1826-1887) notò che la tinta verde provocata dal cloruro di ferro (III) a contatto con sezioni di ghiandola surrenale, può essere ottenuta anche trattando il sangue efferente della ghiandola con il medesimo reagente in soluzione. Concluse che le ghiandole surrenali, poiché prive di dotti, riversano nel sangue i prodotti secreti e scrisse i suoi risultati in una comunicazione scientifica dal titolo Note sur quelques réactions propres à la substance des capsules surrénales. Comptes rendus de l'Académie des Sciences, Paris, 1856, 43: 663–665.

Solo nel 1901 Jokichi Takamine (1854-1922) e, indipendentemente, Thomas Bell Aldrich isolarono una prima sostanza secreta dalle ghiandole surrenali, che fu chiamata adrenalina. Aldrich ne determinò anche la struttura.

L'azione dell'adrenalina mostra la presenza di un messaggero chimico al quale fu dato il nome generico di ormone: nel 1905 Bayliss e Starling introdussero questo termine dopo aver scoperto la secretina, la molecola che stimola il pancreas a produrre acqua e bicarbonato sodico per il succo pancreatico.

Lungi dal volermi prodigare in disquisizioni sugli effetti fisiologici dell'adrenalina, ben oltre la proverbiale "scarica", mi soffermo al solito sugli aspetti chimici.

Al pari della tiroxina, anche la sintesi dell'adrenalina muove dall'amminoacido L-tirosina e si sviluppa nei seguenti passaggi:
  1. nell'anello fenolico della tirosina è introdotto un secondo gruppo ossidrilico (OH) in posizione orto rispetto a quello già presente: si forma la L-DOPA (Levo-Di-Oxidril-Phenyl-Alanine);
  2. L-DOPA perde il gruppo carbossilico COOH e si trasforma in dopamina;
  3. nella dopamina è introdotto un gruppo alcolico (OH) con la formazione di noradrenalina;
  4. l'atomo di azoto della noradrenalina è metilato con la formazione di adrenalina.


L'adrenalina dà reazioni positive ai saggi per le ammine secondarie, per gli alcoli secondari e per i fenoli: essa è una catecolammina.

L'anello benzenico con due gruppi OH adiacenti è detto catecolo. Il catecolo dà con il cloruro ferrico (di colore giallo) complessi dal colore verde (e questo giustifica la reazione osservata e descritta da Vulpian), mentre fenolo (con un solo OH) e resorcinolo (con due OH in posizione meta) formano complessi dal colore viola. Ecco il confronto.


Poi, per distinguere adrenalina e noradrenalina, ad esempio, è possibile sfruttare il saggio di Piria: trattando le due sostanze con acido nitroso (formato in situ trattando nitrito di sodio con HCl o con acido solforico) avremo la formazione di una N-nitrosammina (di colore giallo) dall'adrenalina (ammina secondaria) e di un diolo vicinale dalla noradrenalina (ammina primaria) con sviluppo di azoto gassoso solo nel secondo caso.


Oggi ovviamente non si fa più così: esistono le tecniche spettroscopiche, anche se qualcuno continua a tener ancora vivo il ricordo dell'analitica tradizionale.

NOTE
G.B. Marini-Bettolo, Analisi Qualitativa Organica, Università di Roma, 1941
N. Siliprandi, Lezioni di Chimica Biologica, Ed. Ricerche - Roma
Enciclopedia Peruzzo-Larousse, voce: Endocrinologia.
http://www.minerva.unito.it/SIS/Endocrinologia/index.html

venerdì 4 maggio 2018

KENDALL E GLI ORMONI

Il 4 maggio 1972 moriva il biochimico statunitense Edward Calvin Kendall (1886-1972), premio Nobel per la medicina nel 1950 - ex aequo con Reichstein e con Hench - per la scoperta del cortisone.


Conseguito il dottorato di ricerca in Chimica nel 1910, Kendall iniziò la sua carriera di ricercatore interessandosi degli ormoni della ghiandola tiroide: fu lui, infatti, ad isolare la tiroxina - e a detta degli storici della Chimica, è questo il lavoro di ricerca più notevole da lui realizzato, forse superiore anche a quello che poi lo avrebbe rese immortale, dedicato ai corticosteroidi.


Dopo aver scoperto la tiroxina, isolò e descrisse il glutatione - importante agente riducente dell'organismo - determinandone la struttura.

Successivamente rivolse la sua attenzione a certi estratti ottenuti dalle ghiandole surrenali, che tanti benefici sembravano dare ai malati di artrite. Era il 1936. Negli anni successivi, dall'estratto, Kendall riuscì a separare più composti che chiamò A, B, C, D, E, F...


Nel frattempo giunse la Seconda Guerra Mondiale e i servizi segreti alleati vennero a conoscenza del fatto che agli aviatori dell'Asse era dato un particolare estratto di ghiandole surrenali bovine, provenienti dagli allevamenti argentini, che meglio permetteva loro di fronteggiare le situazioni di stress. La ricerca sugli estratti delle ghiandole surrenali fu così ulteriormente supportata dal governo americano e Kendall individuò nel "suo" composto E la sostanza efficace a tal scopo.


Solo nel 1944, tuttavia, tale sostanza fu disponibile in quantità sufficienti, grazie alla ricerca di Lewis Sarrett, un chimico dipendente della Merck, che per la sua sintesi (in 37 stadi) partì dall'acido desossicolico estratto da bile bovina: la struttura colestanica alla base delle molecole degli steroidi è in comune a quella di acidi e sali biliari.


Nel 1948 il composto E fu somministrato dal dottor Hench a una paziente artritica: nel giro di pochi giorni le condizioni di salute della paziente migliorarono notevolmente. Il miracoloso composto E di Kendall era tuttavia confuso nel nome con la vitamina E (l'alfa-tocoferolo, isolato e descritto in quegli stessi anni) e per questo lo scienziato decise di denominarlo cortisone

Due anni dopo la prima sperimentazione sul primo paziente, per questa scoperta, gli fu assegnato il Nobel, ex-aequo con gli scienziati già ricordati in apertura: Hench, suo collaboratore, e Reichstein, chimico polacco naturalizzato svizzero, che lavorava su temi analoghi.


In realtà, solo nel 1985, il biochimico Ronald Evans riconobbe che il cortisone è convertito dall'organismo in cortisolo, per riduzione del gruppo chetonico (-one) a gruppo alcolico secondario (-olo): è questa la sostanza che presenta gli effetti fisiologici (desiderati e indesiderati) per approfondire i quali rimando alla specifica competenza dei medici. Io mi sono limitato qui a qualche accenno storico-chimico e nulla di più. 

Note bibliografiche
L. Cerruti, Bella e Potente - La chimica del Novecento fra scienza e società, Ed. Riuniti
G. Signore, Storia della farmacia dalle origini ai giorni nostri, EDRA, 2013
N. Siliprandi, Lezioni di Chimica Biologica, Ed. Ricerche - Roma


mercoledì 2 maggio 2018

Stamattina...

Stamattina mi son soffermato nel raccontare un paio di cose che brevemente vi partecipo in questo post.

La prima delle due cose riguarda la ghiandola tiroide: in particolare, la iodurazione della tirosina catalizzata dall'enzima TPO (tireo-perossidasi) nella biosintesi della tiroxina, uno dei più importanti ormoni prodotti da questa ghiandola (da me rappresentata schematicamente al centro del disegno sotto). 


Non mi soffermo a dare informazioni di tipo medico (non è il mio compito), ma sottolineo l'aspetto chimico, che in un passaggio fondamentale concerne appunto la iodurazione (così nei testi di chimica; in quelli di area medica si trova frequentemente il termine iodinazione, sbrigativa traduzione dell'inglese iodination) dell'anello fenolico della tirosina, un amminoacido la cui formula è rappresentata nel box sottostante (ogni specie rappresentata reca sotto il nome corrispondente). 


L'immagine riprende una pagina del mio (non troppo) vecchio libro di Chimica Organica (J. McMurry, ed. Piccin): clikkate per ingrandire e leggere più comodamente.

L'enzima TPO contiene un atomo di ferro e "probabilmente" (opinione mia, del tutto personale) la reazione con iodio e acqua ossigenata decorre con un meccanismo radicalico, forse simile alla reazione di Fenton.

In soldoni, nella biosintesi della tiroxina emergono due aspetti chimici importanti
  1. prima lo ioduro è ossidato a iodio elettrofilo (rappresentato sopra con I+) dall'acqua ossigenata, grazie all'azione catalitica dell'enzima TPO (altrimenti lo ioduro catalizzerebbe, com'è noto dalla letteratura, la decomposizione dell'acqua ossigenata ad acqua e ossigeno elementare); 
  2. in uno step successivo,  due residui di tirosina iodurata si accoppiano, con il trasferimento dell'anello aromatico dell'uno sull'altro (coupling) e la reazione è sempre catalizzata per via enzimatica.
La seconda cosa su cui mi sono soffermato stamattina è il proteo... ma di questo misterioso anfibio, che popola le umide grotte carsiche, vi racconterò in un secondo momento. 


Spero di fotografarlo presto. E intanto sempre w la Chimica Organica!