Riflettevo - con stupore, ammirazione e non senza un pizzico di preoccupazione - sul fatto che il mio cuore, da quando si è formato a oggi, ha pulsato all'incirca un miliardo e mezzo di volte.
Calcolate quanti minuti ci sono in un giorno, moltiplicate per il numero di giorni in un anno e moltiplicate ancora per il numero di anni vissuti: a questi sommate pure i mesi di permanenza nella pancia della mamma, tenendo conto che il battito cardiaco del nascituro è percepibile dalla sesta settimana.
Per fare i conti giusti bisognerebbe tener conto che la frequenza cardiaca è molto maggiore da piccoli e poi diminuisce con l'avanzare dell'età, per stazionare tra i 60 e gli 80 battiti al minuto di un adulto sano.
Che il cuore sia una doppia pompa, inserita in un doppio circuito chiuso, è cosa nota a tutti (o quasi), oggi: la descrizione moderna della circolazione del sangue si deve all'inglese William Harvey, che studiò medicina all'università di Padova alla fine del XVI secolo, negli anni in cui vi insegnavano Galileo Galilei, Fabrizio d'Acquapendente (che descrisse le valvole delle vene) e anche il medico bellunese Eustacchio di Rudio.
Il liquido circolante in questo doppio circuito idraulico è il sangue: rosso vivo nelle arterie che partono dal cuore per raggiungere il corpo, rosso più scuro nelle vene che dal corpo ritornano al cuore per poi raggiungere i polmoni.
Il sangue era uno dei quattro umori di Ippocrate di Cos (insieme a bile gialla, bile nera e flemma); per Galeno di Pergamo, esso scaturiva dal fegato a partire dalle sostanze nutritive per poi diffondersi nel corpo attraverso il cuore e infine scomparire nei muscoli.
Harvey, dopo aver fatto due conti, realizzò che ciò era numericamente impossibile e non poteva essere che lo stesso sangue a circolare dentro vene e arterie, spinto dalle contrazioni del cuore. Nel 1628 pubblicò la sua celebre "Exercitatio anatomica de motu cordis ac sanguinis in animalibus".
Il colore rosso del sangue interesserà quasi due secoli dopo un giovane laureando dell'Università di Gottinga, J.F. Engelhard, autore di una tesi redatta in latino, dal titolo: "Commentatio de vera materia sanguini purpureum colorem impertientis natura", discussa nel 1825.
Ricercando la natura di quella sostanza che impartisce al sangue il colore rosso, Engelhard trovò una proteina contenente all'incirca lo 0.5% di ferro e scoprì che il rapporto tra ferro e parte proteica è pressoché identico in molte specie animali.
Dalla massa atomica del ferro, nota ai chimici del tempo, calcolò la massa molecolare di questa proteina "ferrata" con la relazione empirica: n x 16.000 (ove n è il numero di atomi di ferro per ciascuna molecola proteica, che oggi sappiamo essere n = 4). Fu questa la prima determinazione della massa molecolare di una proteina. Questa conclusione frettolosa richiamò il biasimo da parte di scienziati che, agli inizi del XIX secolo, non potevano credere all'esistenza di molecole così grandi. Rose confermò tuttavia i risultati dei lavori sperimentali di Engelhard e questo tenne vivo l'interesse per questi studi, che riecheggiarono anche in Italia, sulla rivista "Biblioteca italiana o sia giornale di letteratura, scienze et arti" (volume 53, pagg. 215-216).
Ricercando la natura di quella sostanza che impartisce al sangue il colore rosso, Engelhard trovò una proteina contenente all'incirca lo 0.5% di ferro e scoprì che il rapporto tra ferro e parte proteica è pressoché identico in molte specie animali.
Dalla massa atomica del ferro, nota ai chimici del tempo, calcolò la massa molecolare di questa proteina "ferrata" con la relazione empirica: n x 16.000 (ove n è il numero di atomi di ferro per ciascuna molecola proteica, che oggi sappiamo essere n = 4). Fu questa la prima determinazione della massa molecolare di una proteina. Questa conclusione frettolosa richiamò il biasimo da parte di scienziati che, agli inizi del XIX secolo, non potevano credere all'esistenza di molecole così grandi. Rose confermò tuttavia i risultati dei lavori sperimentali di Engelhard e questo tenne vivo l'interesse per questi studi, che riecheggiarono anche in Italia, sulla rivista "Biblioteca italiana o sia giornale di letteratura, scienze et arti" (volume 53, pagg. 215-216).
Anche Claude Bernard si interessò di questa proteina contenente ferro e ne chiarì il ruolo: nel frattempo, F. L. Hunefeld scoprì nel sangue una forma di questa proteina che, oltre al ferro, conteneva anche ossigeno. Descrisse i suoi lavori in "Die chemismus in der thierischen organization" (1840).
Nel 1851 il fisiologo tedesco Otto Funke pubblicò una serie di articoli in cui descrisse la crescita di cristalli di questa proteina, prima diluendo i globuli rossi con solventi opportuni (acqua pura, alcool o etere) e poi facendolo evaporare lentamente dalla risultante soluzione proteica.
Nel 1866 Felix Hoppe-Seyler pubblicò "Uber die oxydation in lebendem blute" (Med-chem Untersuch Lab. 1:133-140), in cui descrisse l'ossigenazione reversibile della proteina contenente ferro.
Ormai il lettore avrà compreso che questa proteina contenente ferro che si lega in modo reversibile all'ossigeno è l'emoglobina, il cui nome deriva dalle parole eme e globina, le quali rispecchiano il fatto che ciascuna delle quattro subunità di questa molecola è una proteina globulare con un gruppo eme incorporato. Ciascun gruppo eme contiene un atomo di ferro, che può legare una molecola di ossigeno biatomico.
Ormai il lettore avrà compreso che questa proteina contenente ferro che si lega in modo reversibile all'ossigeno è l'emoglobina, il cui nome deriva dalle parole eme e globina, le quali rispecchiano il fatto che ciascuna delle quattro subunità di questa molecola è una proteina globulare con un gruppo eme incorporato. Ciascun gruppo eme contiene un atomo di ferro, che può legare una molecola di ossigeno biatomico.
Giacomo Ciamician, professore a Bologna, osservò che per ossidazione dell'eme era possibile ottenere un miscuglio di emopirroli; analogamente, ossidando le clorofille, si ottenevano miscugli di fillopirroli. Scrisse in merito (Rivista di scienza, vol. 1, 1907, Problemi di Chimica Organica):
Richard Willstatter, premio Nobel per la Chimica nel 1915, evidenziò l'analogia strutturale tra l'anello porfirinico della clorofilla e quello dell'eme, rilevando che nella prima c'è il magnesio laddove nella seconda c'è un atomo di ferro.
Nel 1925, Gilbert Smithson Adair riprese il problema della massa molare dell'emoglobina e confermò i risultati di Engelhard misurando la pressione osmotica delle sue soluzioni e pubblicando i suoi risultati in "A critical study of the direct method of measuring the osmotic pressure of haemoglobin" (Proc. R. Soc. Lond. A 108 (750): 292-300).
Nel 1959, Max Perutz, un chimico che lavorava a problemi di biologia in un laboratorio di fisica a Cambridge (così amava definirsi), determinò la struttura molecolare dell'emoglobina mediante cristallografia ai raggi X e pubblicò i risultati su Nature nel 1960. Questo lavoro lo ha portato a ottenere, con John Kendrew, il Premio Nobel per la Chimica nel 1962, assegnatogli per gli studi sulle strutture tridimensionali delle proteine globulari.
La risposta alla domanda: "perché il sangue è rosso?" ingloba anche la risposta ad altre due domande, concernenti il colore delle feci e quello dell'urina. Il colore di questi escreti è dovuto a molecole che derivano dalla degradazione dell'eme. Quando i globuli rossi sono distrutti dalla milza e dal fegato, dopo circa 120 giorni, il ferro è recuperato mentre la struttura porfirinica è successivamente ossidata a pigmenti biliari (biliverdina, bilirubina), riversati con la bile nell'intestino, e quindi trasformati, attraverso vari passaggi, in stercobilina e infine in urobilina.