Non si può insegnare la Chimica Organica esclusivamente in funzione della biologia, limitarsi a raccontare la tetravalenza del carbonio, proporre una tabella dei gruppi funzionali e poi parlare di carboidrati, lipidi, proteine e acidi nucleici.
La Chimica Organica ha confini più vasti; anzi, a dirla tutta non ha più nemmeno confini. Forse non ha nemmeno senso distinguerla dal resto della Chimica, se non per regioni didattiche e divulgative.
Già nel XVIII secolo gli studiosi (chiamati ancora filosofi naturalisti) avevano cominciato a isolare le sostanze presenti nei viventi e a distinguerle da quelle del mondo minerale, parlando di chimica vegetale e di chimica animale. Tra i tanti, Gay Lussac aveva osservato che quest'ultima distinzione non aveva ragion d'essere: QUI.
I chimici, agli inizi del XIX secolo, erano tuttavia convinti che le sostanze del mondo vivente potessero formarsi solo grazie a una vis vitalis propria degli organismi e che fosse impossibile ottenerle in laboratorio: qui distinsero la chimica organica come chimica del vivente dalla chimica inorganica - che ha per oggetto il mondo minerale. Questa distinzione, già abbozzata da Stahl e delineata compiutamente da Berzelius, rimase in auge finché Wohler non ottenne l'urea riscaldando il cianato di ammonio, Kolbe l'acido acetico a partire dal carbone e Berthelot molti altri composti: QUI.
L'impulso allo sviluppo della chimica organica venne dalla possibilità di utilizzare il catrame come fonte di intermedi per produrre coloranti, farmaci, esplosivi e poi nuovi materiali - come la bachelite preparata per reazione di fenolo e formaldeide e poi tutte le altre materie plastiche.
Al catrame si aggiunsero il petrolio (la petrolchimica nasce intorno al 1920, per produrre isopropanolo e acetone), l'acetilene (ottenuto per idratazione del carburo di calcio) e il metano. Oggi si cerca di sostituire le fonti fossili con fonti attuali (biomasse) e lo sfruttamento di queste si giova anche degli studi sui microrganismi e sui processi fermentativi da essi attuati.
Al centro dell'organica c'è sempre il carbonio, che si lega a tutti gli elementi della tavola periodica (a scuola ci si limita a raccontare che si lega con idrogeno, ossigeno, azoto, zolfo… QUI) condividendo o trasferendo elettroni.
La chimica moderna è la scienza degli elettroni, disposti attorno al nucleo dell'atomo in livelli energetici; quelli del livello più esterno sono detti elettroni di valenza e la loro natura (descritta matematicamente da una funzione chiamata orbitale) giustifica le proprietà chimiche dell'elemento, ossia la capacità di formare legami con altri elementi. I legami condizionano le proprietà macroscopiche della materia. Il carbonio forma catene di legami con altri atomi di carbonio: tali catene possono essere lineari, ramificate o cicliche, sature o insature.
Gli stessi atomi possono dare più combinazioni per definire strutture spaziali diverse, dalle quali dipende la reattività di ogni molecola, sia essa prodotta da organismi viventi sia ottenuta in laboratorio o negli impianti industriali.
Una reazione comporta la rottura dei legami tra le sostanze reagenti e la formazione di nuovi legami nei prodotti finali: questa trasformazione comporta scambi di energia (fornita o sottratta), un mezzo di reazione (il solvente) e talvolta l'uso di un catalizzatore o di un inibitore - per restare sulla carta: in laboratorio le cose diventano più difficili, in quanto bisogna separare le diverse sostanze, purificarle e caratterizzarle (oggi con le tecniche spettroscopiche, un tempo con l'analisi manuale).
Tutto ciò premesso, limitare la Chimica Organica al ruolo di "ancilla biologiae" mi pare riduttivo, soprattutto per il modo in cui è effettivamente presentata nei programmi per la scuola secondaria e anche come piccolo modulo in taluni esami universitari. Ovviamente quella espressa è solo un'opinione personale, ma credo che nella sostanza potrà essere condivisa da molti amanti di questo splendido campo di studi.