Oggi è la festa del papà e, benché abbia poco da festeggiare, non essendo padre, offro in questo post alcuni brevi pensieri, al termine di questa settimana faticosa, in cui il sabato - il settimo giorno - ha tutto il sapore del Shabbat - il riposo che contempla la cessazione di ogni attività.
Il primo pensiero scaturisce dalla lettura di una notizia che ho letto ieri sera su Avvenire, a firma di Nello Scavo, a proposito di "quei papà disertori costretti ad arruolarsi", che mette in evidenza un aspetto della guerra spesso troppo sottovalutato dalla storiografia: ci sono uomini che da un giorno all'altro perdono tutto. Casa, lavoro, amici. Restano solo gli affetti familiari e la speranza di poter crescere i figli e garantire loro un futuro. Non importa dove e come. Importa il quando: adesso.
A troppi di questi uomini, tuttavia, non è permesso scegliere tra famiglia e patria: si sacrifica anche la prima in nome della seconda, come se vestire una mimetica, imbracciare un fucile, marciare nel fango, sparare a chi sta dall'altra parte o diventare un bersaglio per il nemico (spiegatemi il significato di questo termine) sia la cosa più ovvia. Dal sacro dovere al massacro il passo è sempre troppo breve. Per carità, c'è chi lo sceglie, il mestiere delle armi. Ma non è per tutti, non lo è mai stato ne mai lo sarà e c'è chi questo ancora non lo capisce.
Per fare un soldato non basta prendere (dalla strada, dall'ufficio, dalla fabbrica, dalla scuola, dai campi...) un qualsivoglia esemplare di Homo sapiens sapiens maschio, rinchiuderlo in una caserma, cucirgli addosso un'uniforme, assegnargli un numero di matricola e minacciare di metterlo al muro se non obbedisce agli ordini. Quali ordini, poi? Di chi? A che pro? Troppe domande che un soldato non si deve porre, ma si pone una persona qualsiasi che abbia un briciolo di senno e non può non porsi - specie quando passa i quaranta e barba e capelli incanutiscono.
Il secondo pensiero è per Goffredo Parise (1929-1986), scrittore vicentino di padre biologico ignoto, che - ormai adolescente - fu accolto come figlio dal giornalista Osvaldo Parise, marito della madre dal 1937.
Nel Grande libro del Veneto (a cura di E. Sturani, ed. Mondadori, 1985), che mi regalarono da bambino, si legge un passo bellissimo di questo autore: il Veneto è la mia Patria. Sebbene esista una Repubblica Italiana, questa espressione astratta non è la mia Patria.
Ancora, ne Il mio Veneto, lo stesso Parise afferma: "do alla parola Patria lo stesso significato che si dava durante la prima guerra mondiale all'Italia: ma l'Italia non è la mia Patria e sono profondamente convinto che la parola e il sentimento di Patria è rappresentato fisicamente dalla terra, dalla regione dove uno è nato".
La regione di Parise, il Veneto (vorrei dire: il mio Veneto, le terre di San Marco e nel mio nome di battesimo ad esse sono indissolubilmente legato) fu annessa al territorio del regno sabaudo nell'ottobre 1866, cinque anni e mezzo dopo la proclamazione dell'unità territoriale, avvenuta il 17 marzo 1861.
Io sono nato a Belluno - marginale cittadina tra le montagne a nord di Venezia, e la cosa mi è assai indifferente. Tuttavia, mi dispiace esserci rimasto al termine dei miei lunghi percorsi di studio istituzionale e fatico all'idea di doverci restare fino alla morte.
La cosa mi è resa meno amara pensando che, una volta spirato, risparmiatomi il ludibrio del funerale cattolico, qualche anima pia disperderà le mie ceneri nella Laguna di Venezia - città che amo e che mi ha insegnato quanto la vita possa essere anche bella.
(Poi, come ho raccontato altrove, per un destino beffardo nelle sembianze di un contadino della bassa travestito da accademico, me ne son dovuto tornare tra i monti ad aspettare la fatal quiete, che desidero senza infamia e senza lode, senza gloria e senza storia. In silenzio).
Il terzo pensiero corre invece al Piccolo Credo storico, quel passo del Deuteronomio che recita:
L'incipit mi è particolarmente caro. Mio padre era un Arameo errante: un arameo - quindi di origini mesopotamiche - errante - perché era nomade. Il riferimento è ad Abraham - nome nel quale emerge la radice Ab = padre; e Abramo significa infatti padre di molti, con riferimento a Gn 17,5.
La storia di Abraham è nota: lasciata la Mesopotomia e giunto nella Valle del Giordano, vi si stabilisce. Ha un figlio, Ismaele, dalla sua serva; e un altro, Isacco, dalla moglie Sara. Isacco sarà padre di Giacobbe e questi a sua volta avrà dodici figli...
Anche il mio bisnonno (nato Davìd, italianizzato in Davide dopo il 1938) lasciò la sua terra natia, Frascati, per lavorare tra Vittorio Veneto e Belluno. Qui trovò moglie (o meglio: un secolo fa, una ragazza - dodici anni più giovane - trovò uno dei pochi uomini liberi con posto fisso statale) e si stabilì. Fu padre di sei figli. Il terzo era mio nonno - che ebbe cinque figli, dei quali solo due sono giunti in età adulta. Uno dei due è mio padre.
Il cerchio si chiude ritornando al pensiero iniziale: in nome della patria, si nega a molti padri di crescere i loro figli. Non importa come o dove. Importa adesso. Perché è adesso che un bambino ha bisogno del suo papà, di un legame fondamentale che resta immutato - nella terra dove si è nati o in esilio, lontano da una casa che già per molti non è più.
In questo giorno, in cui forse qualche sacerdote ancora cattolico celebrerà la Solennità di San Giuseppe e qualche bambino festeggerà il suo papà (e non il genitore uno o due), il mio ultimo pensiero è per la mamma. O meglio, per la madre. La madre terra di San Francesco - la quale ne sustenta et guberna, et produce fiori, frutti ed herba. La materna mia terra - di foscoliana memoria. Quella madre, che con il suo urlo nero andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo - nei versi di Quasimodo.
Come nel grembo materno è nascosto il mistero di una vita che germoglia, così nei possibili anagrammi della parola "madre" è nascosto il futuro di un figlio: "dream", sogno; oppure "merda". E qui non v'è bisogno di traduzione alcuna e men che meno di ulteriori spiegazioni.