Tre rintocchi all'unisono, intervallati da una pausa e ripetuti per due volte. Così la sorte sembra bussare alla porta nell'ouverture dell'opera "La forza del destino", che Giuseppe Verdi scrisse nel 1862 per il teatro di San Pietroburgo, su libretto di Francesco Maria Piave.
Nel brano strumentale, i temi dell'opera vengono esposti e creano il clima drammatico della rappresentazione che seguirà: la storia di un amore contrastato tra Leonora, che si ritira a vita eremitica, e Alvaro, che diventa soldato per fuggire da Carlo, fratello di lei che cerca vendetta e per compierla ucciderà la sorella. Leonora spirerà tra le braccia di Alvaro ed egli, rimasto solo in questa valle di lacrime, maledirà il proprio destino.
All'origine della vicenda v'è il rifiuto del padre ad acconsentire alle nozze tra Leonora e Alvaro: è troppo spesso la volontà paterna ad essere mortifera, tanto nella finzione scenica quanto nella vita reale - e ne so qualcosa: per mia fortuna non è mai scorso sangue, in casa, ma per mia somma sventura tante lacrime si.
E purtroppo, come ogni mese di luglio da un quarto di secolo a questa parte, i pensieri ricadono sulle mie aspettative, falciate come l'erba nei pascoli di montagna e lasciata seccare.
Guardo alla natura da scoprire e avrei voluto un' eternità per inebriarmi di meraviglie.
Guardo alle miserie umane e avrei desiderato una vita per servire, a patto di non dover diventare schiavo di consuetudini, come spesso capita a chi si inserisce in contesti troppo strutturati.
Niente padri, padrieterni e patrie: non fanno per me. Non sento il bisogno di mettere un pezzo di metallo sull'anulare sinistro, come avrebbero preteso certi congiunti, taluni colletti romani e non ultima una cretina che mi rispondeva a un'email nella quale chiedevo informazioni per iscrivermi (finalmente!) al corso di laurea dei miei sogni infranti.
Purtroppo per me altri avrebbero deciso tempo fa che il mio destino dovesse avere i contorni di un ibrido tra un animale da riproduzione e una bestia da soma. E mi ritrovo condannato a non aver potuto realizzare nessuno dei miei progetti, ad aver lottato per non realizzare quelli decisi da altri e, peggio, a dover portare per tutta la vita il cognome dei miei carcerieri. Un ergastolo.
Vorrei avere la forza per illudermi, come Leonora, che nel dramma verdiano invoca la protezione della Vergine degli Angeli.
E invece, come il volteriano Candido, mi ritiro a coltivare in pace il mio giardino, sul quale proprio in questo istante incombono venti di tempesta...
Sarà che invecchio, ma quando ascolto la Vergine degli Angeli non riesco a trattenere le lacrime...L'avevamo cantata anni fa col mio vecchio coretto di paese quando il parroco era andato in pensione. Noi stavamo dietro l'altare, ma ci hanno detto che appena abbiamo attaccato il canto verso al fine della Messa, il brav'uomo si è messo piangere dalla commozione!
RispondiEliminaGrazie di questa musica, Marco! Vedrai che il tuo cielo si schiarirà, e non solo quello che in questo momento incombe sul tuo giardino.
Il coro di Verdi è semplice ed efficace: grazie per l'aneddoto sul tuo parroco e la sua sensibilità musicale. A riguardo del cielo sul mio giardino: è tornato il sereno. Per quanto concerne il mio cielo: mi sono rassegnato ad aspettare il tramonto, che spero non sia troppo in là nel tempo.
EliminaHai tanto da dire e da dare, Marco...non è ora di pensare al tramonto! Ti auguro una domenica serena.
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